di A.T. White (Stati Uniti, 2018)
Dopo l’immancabile gavetta (una manciata di cortometraggi), anche A.T. White debutta sulla lunga distanza e lo fa con un film tanto originale quanto ambizioso. Questo “Starfish” è un mystery movie ma allo stesso tempo è pure uno sci-fi/horror dai contorni post-apocalittici, una commistione tra generi che rimette in circolo una serie di sensazioni già assaporate in passato (qui però alimentate da un intrigante tocco autoriale di non facile fruibilità).
Aubrey (Virginia Gardner) è sconvolta dalla perdita della sua miglior amica Grace: quando si reca nel suo appartamento per accudire una tartarughina rimasta sola, Aubrey si addormenta per poi risvegliarsi in un mondo quasi irriconoscibile. La neve ha ricoperto tutto, le strade sono piene di macchine distrutte, gli incendi divampano senza sosta e i pochi umani rimasti sono in fuga o si nascondono al sicuro. Con l’aiuto di una voce misteriosa con cui Aubrey comunica attraverso un walkie-talkie e grazie ad alcune registrazioni su cassetta lasciate da Grace, la ragazza cerca di capire quale strano cataclisma si sia scatenato.
La cottura è a fuoco lento, “Starfish” è infatti il classico film in cui bisogna avere molta pazienza, un’attesa che viene in parte ripagata dal momento in cui A.T. White ci svela qualche particolare sugli eventi che stanno accadendo. “Devi prestare attenzione, il segnale è molto potente. Apre dei portali e credo che le creature vengano fuori da questi portali, ma sembra che ne abbiano anche paura”: è la presenza maschile che parla con Aubrey a rivelarci gli indizi più importanti sulla tragedia in atto, ma chi sono in realtà i mostri che stanno mettendo a ferro e fuoco questa tranquilla cittadina? In “Starfish” c’è un evidente simbolismo che rimanda all’elaborazione del lutto – qui affrontato anche in chiave autoironica – tuttavia la pellicola si apre a ventaglio contemplando sia il dramma tout court che il deragliamento lovecraftiano (la CGI non è che faccia perfettamente il suo dovere). Il risultato complessivo è piuttosto interessante (incluso quel finalone con la musica dei Sigur Rós), ma non tutto fila liscio durante il percorso, proprio per via di un’attitudine eccessivamente autoriale che sfocia più volte nell’ermetismo fine a se stesso. Non resta quindi che ammirare la bravura con la quale il regista è riuscito ad assemblare i tanti pezzi del puzzle, citando per giunta alcuni film, come ad esempio “The Road” (per il paesaggio apocalittico), “Monsters” (per la minaccia costante di qualche creatura poco raccomandabile), “The Mist” (per i momenti di assedio) e “Resolution” (per la deriva mystery rappresentata da codici e messaggi provenienti da chissà dove).
“Starfish” è un lungometraggio che allo spettacolo preferisce una dimensione più intima, è un’opera che predilige un senso di terrore e di spaesamento individuale rispetto a una percezione universalmente condivisa. Ecco perché si tratta di una visione complessa, a tratti indecifrabile, sicuramente non per tutti. Forse A.T. White con questo esordio ha fatto il passo più lungo della gamba, ma il suo coraggio di osare merita rispetto, al di là del risultato complessivo: discreto e con ampi margini di miglioramento.
(Paolo Chemnitz)
Mi aspettavo una spiegazione, invece tanti giri di parole per dire nulla. Peccato
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In effetti il film e’ il nulla assoluto
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