Moon Garden

di Ryan Stevens Harris (Stati Uniti, 2022)

Nel variegato mondo del cinema di confine (quello che piace a noi), c’è la tendenza piuttosto antipatica nel voler (o nel dover) elogiare a tutti i costi delle pellicole senza dubbio valide ma non per questo esemplari. È il caso di “Moon Garden”, film premiato a Sitges nella categoria new visions e primo lungometraggio per Ryan Stevens Harris, una sorta di fiaba dark-fantasy il cui punto di partenza è comunque strettamente legato alla realtà.
Le fasi iniziali dell’opera ci sbattono in faccia l’amara quotidianità di una famiglia disfunzionale: una coppia di genitori litiga furiosamente, fregandosene delle conseguenze a cui andrà incontro la piccola Emma (una brava e sorprendente Haven Lee Harris). La bambina, proprio nel corso dell’ennesima situazione al limite del sopportabile, cade dalle scale battendo la testa ed entrando in coma. Qui comincia il vero “Moon Garden”, praticamente un viaggio nel cuore di un paese delle meraviglie tutt’altro che rassicurante, non solo per i personaggi che lo popolano, ma anche per un’atmosfera opprimente non troppo distante da certi umori di taglio steampunk-industrial.
Quello di Emma si può definire il percorso allucinato di una mente in stato comatoso, in attesa di un auspicato ritorno alla coscienza. Per raccontarci tutto questo, il regista butta in mezzo moltissime influenze (il cinema di Tim Burton ha un posto importante nel background di Ryan Stevens Harris) e uno stile cangiante dominato da un’estetica abbastanza caotica (stop motion e live action animation, in un mare di cromatismi spesso esagerati alternati a flashback più sobri, nei quali si torna per un attimo alla realtà). Tale bombardamento serve anche a nascondere una storia relativamente sviluppata, qua e là arricchita da una serie di dialoghi tutto sommato trascurabili (“Moon Garden” sarebbe stato molto più affascinante se fosse stato un prodotto affidato esclusivamente alle immagini).
Ci troviamo, dunque, almeno due spanne al di sotto rispetto a titoli simili ma di alto livello qualitativo (nonostante alcune affinità con “Mad God”, l’opera di Phil Tippett viaggia decisamente su un altro pianeta). Sia chiaro, gli sforzi di Ryan Stevens Harris raggiungono una sufficienza più che abbondante, sforzi che però non permettono all’opera di fare il grande salto. In futuro, servirà un approccio al fantastico meno derivativo e più concreto, oltre che più intenso e raccapricciante. Che le surreali disavventure di Emma possano comunque rappresentare un piccolo ma significativo punto di partenza per questo promettente regista americano.

(Paolo Chemnitz)

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