Doom Generation

di Gregg Araki (Stati Uniti, 1995)

“Doom Generation” è pregno di anni novanta dal primo all’ultimo fotogramma, non a caso all’epoca per molti giovani (oggi ultraquarantenni) questo era da considerare un film manifesto. La cosiddetta Generazione X persa tra sesso, violenza e nichilismo. Inoltre la pellicola rappresenta il secondo e più celebre tassello della Teenage Apocalypse Trilogy, uno sguardo disincantato sulle nuove generazioni messo in scena da Gregg Araki senza inibizioni e con assoluta spregiudicatezza.
Ci troviamo nel cuore dei 90s e lo intuiamo fin dalle prime battute, ambientate in un locale alternativo dove risuonano selvagge le note di “Heresy” dei Nine Inch Nails: Jordan White (James Duval indossa una bella maglietta dei Ministry) ed Amy Blue (Rose McGowan) se ne vanno via da lì, imbattendosi in un loro coetaneo reduce da una furiosa rissa (Xavier Red è interpretato dal belloccio Johnathon Schaech). Da qui ha inizio un road movie vero e proprio, basato sia sul rapporto sempre teso tra questi giovani (un threesome anche mentale), sia su una lunga scia di sangue che accompagna ogni loro sosta durante questo allucinante trip dalle atmosfere spesso notturne e psichedeliche.
Possiamo inserire “Doom Generation” all’interno di quel filone pulp che spopolava in alcune uscite del periodo (“Pulp Fiction” e “Natural Born Killers” precedono questo lungometraggio di qualche mese), dopotutto nel 1995 Gregg Araki non aveva ancora raggiunto la sensibilità registica del suo futuro capolavoro “Mysterious Skin” (2004). Ecco perché non è affatto facile entrare in sintonia con i tre protagonisti, in particolare con Amy, una ragazza sboccata e volgare nel pieno di un caos esistenziale: però il fascino dell’opera è anche questo, una mirabolante anarchia impossibilitata a trovare pace e tranquillità (“there’s just no place for us in this world”).
Qualche inattesa sequenza splatter presto lascia il posto a numerose scene di sesso, una trasgressione che ben si integra con questo coloratissimo vortice privo di punti di riferimento, sempre se escludiamo quel numero 666 che invece torna di continuo, ricordandoci che l’apocalisse è dietro l’angolo. L’ottima colonna sonora (i già citati NIN, poi ancora Front 242, Coil, Slowdive, Cocteau Twins e molti altri) ci permette di entrare a gamba tesa nel mood del lavoro, un umore nero come la pece che trascina gli eventi al di là di uno script piuttosto esile. Considerando il legame sempre forte tra la musica e Gregg Araki, nel film possiamo apprezzare le fugaci apparizioni di Perry Farrell e degli Skinny Puppy, giusto per rimarcare lo spirito trasversale di “Doom Generation”, un girone infernale che diverte e appassiona pur senza approfondire nulla.
Rivedendolo oggi, è difficile attualizzare o contestualizzare questo prodotto ai giorni nostri: quella patina acida e quelle sensazioni a tratti sospese (per non dire lynchiane) ci riportano soltanto agli anni novanta, davanti allo sguardo di una gioventù americana in procinto di perdersi definitivamente. “Doom Generation” è un’istantanea di quel momento.

(Paolo Chemnitz)

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