
di Franklin J. Schaffner (Francia/Stati Uniti, 1973)
Henri Charrière è stato uno dei più controversi criminali francesi dello scorso secolo: lui per tutti era Papillon, per via di una farfalla tatuata sul torace, un simbolo sinonimo di libertà e di rinascita. Non a caso sono stati moltissimi i suoi tentativi di fuga durante la permanenza in diverse colonie penali della Guyana francese, un carcere duro dove egli dovette scontare un ergastolo per omicidio (Charrière si è sempre professato innocente).
Alla fine degli anni sessanta Papillon scrisse un omonimo libro di memorie, una sorta di autobiografia nella quale venivano raccontate le atrocità commesse in questi centri di detenzione: soprusi, sotterfugi, malattie e ovviamente le dinamiche che portarono questo personaggio all’evasione dall’isola del Diavolo, un famigerato penitenziario dove ogni detenuto era costretto ai più umilianti lavori forzati.
Con un soggetto così affascinante, non fu difficile apparecchiare la tavola per fare il botto nelle sale americane: a un regista esperto come Franklin J. Schaffner (“Il Pianeta Delle Scimmie”) furono affiancati uno sceneggiatore del calibro di Dalton Trumbo e due grandi attori di Hollywood, Steve McQueen (nel ruolo di Papillon) e Dustin Hoffman (in quello del suo amico falsario Louis Dega), mentre lo score musicale fu affidato a un’eccellenza assoluta (Jerry Goldsmith). I primi venti-trenta minuti del film sono una vera bomba, i prigionieri vengono infatti trasportati dalla Francia in Guyana attraverso un lungo viaggio via oceano, un’introduzione affascinante che ci permette subito di fare conoscenza con i due protagonisti e con il classico marciume (dis)umano da prison movie.
Una volta a destinazione, il regista americano utilizza discretamente questa cornice sporca e insalubre, alzando qua e là l’asticella con qualche scena abbastanza cruenta e con un ritmo particolarmente sostenuto. “Papillon” però ha un difetto non trascurabile: dura troppo, due ore e mezza in cui a volte si gira infinitamente attorno ad alcune situazioni superflue, senza contare una seconda parte sicuramente meno incisiva rispetto alla prima. Ecco perché non possiamo celebrare questa pellicola alla pari dei vari capolavori del genere (pensiamo allo strepitoso “Fuga Da Alcatraz”), un limite evidente sul quale non è possibile chiudere un occhio. La confezione è perfetta ma il contenuto non è affatto impeccabile, proprio a causa delle eccessive divagazioni (la fase post-evasione sembra divisa in più episodi, uno dei quali tuttavia impressionante, quello dell’approdo nella comunità di lebbrosi).
“Papillon” resta dunque un buon prodotto con delle potenzialità narrative non sempre sfruttate al massimo, un film che al di là di tutto segna uno dei punti più alti nella carriera di Steve McQueen, curiosamente in passato già impegnato in una fuga da un carcere in mezzo a una palude (qualcuno sicuramente lo ricorderà nel valido revenge western “Nevada Smith” del 1966). Questo è senza dubbio uno dei prison movie più ambiziosi della storia del cinema: tanta carne al fuoco, tra amicizie, avventure, atmosfere tropicali e gli orrori di un mondo crudele senza possibilità di scampo. O quasi.

(Paolo Chemnitz)
