di David Lynch (Stati Uniti, 1977)
Se alcuni film rappresentano un passaggio obbligato per il cinema estremo, altri si spingono ancora più a fondo, incarnando l’essenza stessa della nostra amata filmografia di confine. Come un nuovo Big Bang, “Eraserhead” nel 1977 sprigiona un’energia di rara intensità estetica e concettuale: il primo lungometraggio firmato David Lynch diventa così un punto di riferimento basilare per le giovani generazioni di cineasti attratte dalla sperimentazione e dall’avanguardia.
La trama? Poco importa (lo script era lungo soltanto ventidue pagine), sappiamo solo che Henry (Jack Nance) è un tipografo dalla vita piuttosto squallida. Le strade che percorre sono cupe e grigie, come la società che lo circonda. Poi conosciamo Mary, la sua fidanzata, durante una cena passata alla storia (l’attacco epilettico della madre di lei e il pollo nel piatto che si muove e inizia a sanguinare), immagini surreali e visionarie che valgono da sole il prezzo del biglietto. Col trascorrere dei minuti il film diventa sempre più claustrofobico: restiamo chiusi con Henry in una stanza dalla finestra murata, qui un mostruoso feto partorito da Mary è steso su un letto. L’uomo è costretto a restare accanto a questa creatura (malata), così questa discesa nella follia prende la piega di un incubo vero e proprio, fino al devastante epilogo.
“Eraserhead è il più spirituale di tutti i miei film. Quando lo dico nessuno capisce, ma è così. Eraserhead si stava sviluppando in una certa direzione e non avevo idea di cosa volesse dire”. David Lynch impiega cinque anni per portare a termine il suo progetto, eppure “Eraserhead” non paga assolutamente questo distacco temporale, anzi ogni fotogramma sembra attaccato col cemento a quello successivo, una coesione che trova il suo stato di grazia nel meraviglioso b/n: è proprio l’assenza di colore che accentua le ombre e la dimensione da puro incubo in cui è immerso il protagonista. Ma se da un lato sappiamo che il substrato autobiografico è ben presente nell’opera (la paura della paternità e le inquietudini generate dalla vita in una grande città come Philadelphia), tutte le altre interpretazioni raccolte nel corso degli anni possono valere fino a un certo punto, dopotutto cercare di spiegare a ogni costo il cinema di Lynch spesso equivale a non averlo afferrato nella sua sfuggevolezza, un atto di presunzione per nulla indispensabile. C’è poco da assimilare in “Eraserhead”, semmai bisogna lasciarsi travolgere da questa galassia oscura che genera mostri, quasi un preambolo per il secondo capolavoro del regista americano, “The Elephant Man” (1980), questa volta curiosamente un film biografico.
Quasi privo di dialoghi ma costantemente bombardato da un sinistro rumorismo industriale, “Eraserhead” è uno stato mentale: non dobbiamo però lasciarci ingannare dal sottotitolo italiano La Mente Che Cancella, poiché la pellicola non elimina gli avvenimenti ma li produce costantemente come in un viaggio onirico nello spazio e nel tempo. “Eraserhead” è creazione, ma al di fuori della nostra realtà. Un universo popolato da personaggi strambi e ambigui, come Henry stesso, goffo, alienato e grottesco nella sua acconciatura, come la famiglia di Mary (con la nonna ridotta in stato catatonico) e poi ancora con la donna dalle guance deformate (“in heaven, everything is fine”) e infine con quella specie di aborto che piange di continuo, un simbolo iconograficamente inattaccabile poi ripreso, con altre modalità, dal misconosciuto cult “Combat Shock” (1984) di Buddy Giovinazzo.
Quello di David Lynch è un midnight movie imprescindibile, uno spartiacque che si lascia alle spalle le allucinazioni post-moderne per fare spazio a quelle post-industriali. Una linea diretta che collega lo spazio profondo al cervello umano, con tutte le orribili conseguenze del caso.
(Paolo Chemnitz)