
di Gerard Bush e Christopher Renz (Stati Uniti, 2020)
C’è Sean McKittrick tra i produttori di “Antebellum”, un signore californiano che ha già fatto brillare la stella di Jordan Peele prima con “Get Out” e poi con “Us”. Se quindi due più due fa quattro, non è difficile intuire dove voglia andare a parare questo esordio scritto e diretto da Gerard Bush e Christopher Renz. Una pellicola che in patria ha fatto storcere il naso a più di un critico specializzato. Le accuse: scarsa empatia nei confronti dei protagonisti, il tema caldo della discriminazione razziale trattato in maniera esasperata, ma anche un twist narrativo di quelli shock (cosa che a noi non è dispiaciuta affatto). La verità è che “Antebellum” non è poi così terribile come qualcuno lo ha dipinto.
“Il passato non muore mai. Non è neanche passato”. Tenete a mente questa frase di William Faulkner, perché tra queste parole c’è la soluzione del film. Si parte bene, con un piano sequenza degno di nota girato all’interno di una zona rurale degli States, dove un gruppo di soldati confederati ha appena catturato e giustiziato una donna afroamericana intenzionata a fuggire. Nei campi di cotone la schiavitù non concede sconti, chi sgarra viene punito oppure viene marchiato con il fuoco (come la giovane Eden, interpretata dalla cantautrice e modella statunitense Janelle Monáe). Poi, all’improvviso, la stessa attrice la ritroviamo nel presente nei panni di Veronica, una donna di successo impegnata nella lotta contro il razzismo. La sua vita è perfetta, anche se qualcosa di strano sta minando la sua tranquillità. “Antebellum” si muove dunque tra due piani temporali, in attesa di una svolta sconvolgente, un fulmine a ciel sereno destinato a spaccare in due il pubblico.

Il cinema di Gerard Bush e Christopher Renz sembra volersi spingere ben oltre le tematiche già trattate da Jordan Peele: anche se i due registi condividono con lui un certo approccio estetico (la curatissima confezione spicca sopra ogni cosa), a livello concettuale l’asticella qui viene alzata in maniera spropositata, aggirando qualsiasi forma di simbolismo per colpire a fondo nella realtà dei fatti. Una linea diretta tra passato e presente che senza dubbio fa riflettere, ma che allo stesso tempo risulta eccessivamente forzata e fin troppo stereotipata (i neri buoni e i bianchi cattivi, che strazio). Bisogna pure aggiungere una freddezza generale non proprio adatta alle esigenze dello spettatore, emozioni che scarseggiano nonostante la chiara impronta drammatica del film (qua e là ammantato da alcuni brutali affondi di matrice horror).
Eppure “Antebellum” funziona, non annoia mai e si rivela molto intrigante in svariate situazioni (la scena nel taxi è impeccabile, sulle note di “Warm Leatherette” dei The Normal). Inoltre il twist di cui sopra (non lo potrei rivelare neppure sotto tortura!), pur nella sua assurdità, ha dalla sua un lampo di genio tanto spiazzante quanto azzardato. Proprio qui si risolve l’ardua questione legata al giudizio complessivo sulla pellicola, poiché la corda di “Antebellum” viene tirata talmente tanto che a un certo punto finisce quasi per spezzarsi. Un film dunque carico di entusiasmo, di idee e di buone intenzioni, tuttavia privo di un messaggio convincente in linea con l’attivismo intelligente che potrebbe davvero sensibilizzare l’America su determinati argomenti. Peccato, perché aggiustando la mira poteva uscire fuori un gran bel lavoro.

(Paolo Chemnitz)
