
di Yoshihiko Matsui (Giappone, 1988)
Cresciuto sotto l’influenza costante del cinema di Shûji Terayama, Yoshihiko Matsui ha fatto ben poco rispetto alle sue potenzialità, praticamente quattro pellicole girate nell’arco di oltre trent’anni. La più celebre di queste è “Noisy Requiem”, un incredibile (oltre che estenuante) viaggio di due ore e mezza nei bassifondi di Osaka, città portuale tra le più importanti del Giappone.
Matsui ci racconta la quotidianità degli ultimi emarginati di una società allo sbando, un requiem assordante che scivola via nel più fragoroso e accecante dei silenzi. Fin dalle prime immagini, si capisce che c’è qualcosa di malsano che agita questi personaggi: nella scena iniziale, un uomo estrae un martello dai pantaloni e comincia a colpire i piccioni a cui stava dando da mangiare. Ma non finisce qui, perché il regista giapponese segue con tutte le attenzioni del caso la giornata di altri individui alla deriva, tra nani, mutilati, vagabondi e un serial killer innamorato di un manichino (a cui cerca di dar vita donando gli organi che estrae da alcune donne che ammazza!). Il campionario di perversioni a cui assistiamo è davvero enorme e si manifesta attraverso la spasmodica ricerca di amore, di sesso o di un semplice contatto umano. Solitudine e disperazione all’ennesima potenza.
Con i dialoghi ridotti all’osso, “Noisy Requiem” procede per sensazioni, catturando i nostri occhi grazie a una splendida fotografia in b/n. Qui la trama è un’utopia e in tutta sincerità l’opera dura fin troppo rispetto a ciò che vuole raccontare, ma la poetica dell’estremo di Yoshihiko Matsui merita assolutamente un posto d’onore tra le visioni più sconcertanti e destabilizzanti di fine anni ottanta, quando ormai in Giappone non c’era più spazio per il cinema sperimentale. Un coraggio assolutamente da premiare.
Con il trascorrere dei minuti “Noisy Requiem” diventa sempre più malato e surreale, come se il disfacimento di questi personaggi collimasse con una sorta di dimensione extra-terrena. La lezione di Terayama si percepisce anche qui, ma è chiaro che ormai siamo proiettati verso la fine del millennio, un periodo in cui l’alienazione dei diseredati viene messa in scena facendo più attenzione agli aspetti della ciclicità quotidiana, perché ora pure il tempo è diventato nemico dei poveri. Tutto questo in attesa delle nuove derive del cinema degli ultimi, il cui apice a nostro avviso verrà toccato nel 2001 con l’allucinante “Un Posto Sulla Terra” di Artur Aristakisyan.

(Paolo Chemnitz)

La locandina ricorda i dischi di clock dva e cabaret voltaire.
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