di Joseph P. Mawra (Stati Uniti, 1964)
Il 1964 non è un anno qualunque per il nascente cinema exploitation americano: Russ Meyer dirige il ruspante “Lorna”, Herschell Gordon Lewis ci sconvolge con il delirante “2000 Maniacs” mentre uno sconosciuto Joseph W. Mawra cala addirittura un tris veramente audace per l’epoca, realizzando tre filmetti low cost che stravolgono letteralmente le carte in tavola, ovvero “White Slaves Of Chinatown”, “Olga’s House Of Shame” e “Olga’s Girl”, una trilogia che sarà poi rimpolpata da ulteriori quanto inutili sequel. A differenza della donna frustrata di Meyer (la timida Lorna anticipa di alcuni mesi l’avvento della sboccata e carismatica Tura Satana) o della comunità di psicopatici sudisti protagonisti nell’opera di Lewis, Mawra si diletta con pellicole di taglio grindhouse dove la componente sadica e misogina raggiunge vette mai toccate prima, quasi un antipasto di quello che vedremo nel decennio successivo con la saga di Ilsa e dintorni.
I settanta minuti di “Olga’s House Of Shame” sono i più rappresentativi del lotto, in quanto ci aiutano a entrare nel mondo di questa aguzzina dalla porta principale (anche grazie alla presenza dei dialoghi, non pervenuti negli altri due capitoli). In realtà però non c’è molto da scoprire, poiché la mistress in questione (interpretata da Audrey Campbell) la vediamo ciclicamente impegnata a infliggere torture sadomasochiste a una serie di sventurate (“when was the last time you received a spanking? A long time ago, I bet. This is one you won’t forget! Your ass will be so red after this, you won’t be able to sit down for a month. You’re lucky I’m not using this on another part of your body rather than your ass”). La voce narrante spesso si insinua all’interno di uno script impalpabile, improvvisato dallo stesso Mawra senza un piano ben definito: anche per questo motivo “Olga’s House Of Shame” è un film abbastanza noioso, spezzato qua e là da queste fantasiose e crudeli sevizie che spaziano in lungo e in largo senza nascondere nulla allo spettatore (generose tette al vento incluse).
Rispetto ai succitati colleghi, il nome di questo regista non è mai riuscito a fare la differenza, anche a distanza di tempo. Bisogna comunque riconoscere l’importanza storica di questa pellicola veramente controversa e persino imitata negli anni successivi, un lavoro a dir poco fondamentale nel circuito underground dei 60s che tanto solleticava le trasgressioni del pubblico americano. Prodotto da George Weiss (colui che aveva finanziato “Glen Or Glenda” di Ed Wood!), “Olga’s House Of Shame” è un curioso compendio di torture messe in atto da questa dominatrix che non farà molta strada in ambito cinematografico, rimanendo ancorata a un personaggio purtroppo monodimensionale: niente di più e niente di meno che violenza, droga e timidi sentori lesbo, praticamente un flagello divino che si abbatte su queste povere disgraziate donne oggetto.
(Paolo Chemnitz)