di Todd Solondz (Stati Uniti, 1998)
C’è del marcio nella famiglia americana, ma non fatelo sapere a quelli di Hollywood. Forse anche per questo motivo “Happiness” ha davvero lasciato il segno, ribellandosi a un sistema che troppe volte si è fermato alle apparenze, mostrandoci soltanto gli aspetti positivi e nascondendo tutto lo schifo sotto al tappeto. Todd Solondz non è certo John Waters, ma il suo cinema ha altre carte da giocare: “Happiness” (insieme al quasi contemporaneo “American Beauty”) segna la crisi definitiva della middle-class statunitense, una borghesia frustrata e perennemente insoddisfatta, persa tra continue ossessioni che si muovono spesso sul filo della perversione.
Il regista del New Jersey frammenta la narrazione saltando da un personaggio a un altro, sacrificando una storia che in realtà è l’ultima cosa che ci interessa. Importante è invece l’approfondimento dei componenti di questa famiglia, ognuno dei quali invischiato in qualche problema da risolvere o con un segreto inconfessabile da non far trapelare in alcun modo. L’albero genealogico si muove in orizzontale, ponendo al centro dell’attenzione tre sorelle, Joy, Trish ed Helen: la prima è una fallita che non riesce mai a raggiungere un obiettivo, inoltre rompe con il fidanzato (che si suicida) e si invaghisce di un tipo che le ruba alcuni suoi oggetti personali. Trish invece ha due figli, vive in un grazioso appartamento ma il marito (Bill, uno psicologo) è un pedofilo. Infine c’è Helen, una scrittrice di successo che un giorno prende una sbandata per un maniaco che le racconta cose oscene al telefono, un uomo (il sempre ottimo Philip Seymour Hoffman) che si rivela essere il suo vicino di casa. Ovviamente depresso e ossessionato dal sesso. Con il passare dei minuti conosciamo altre figure non meno importanti, da Kristine (una donna con uno stupro subito e un omicidio alle spalle) ai genitori delle tre sorelle (Mona e Lenny, sul punto di separarsi dopo quarant’anni di matrimonio). La carrellata si conclude con Billy, il figlio di Trish, forse l’unico capace di provare una gioia dopo aver eiaculato per la prima volta.
Ci piace l’ossimoro già presente nella locandina, una (in)felicità che colpisce in maniera trasversale (“I wake up happy, feeling good, but then I get very depressed, because I’m living in reality”) lasciando una scia di rancori, incomprensioni, orrori e dolori. La satira sociale di Todd Solondz è dura ma evita di prendersi eccessivamente sul serio, giocando persino con il black humour più tagliente e con qualche concessione al grottesco, motivo per il quale le due ore di “Happiness” riescono a scendere giù senza mai risultare indigeste o pesanti. Bisogna accettare questa costruzione narrativa volutamente simile a quella di una soap opera, poiché davanti alla mirabile direzione del cast gli attori stessi diventano il motore instancabile di una pellicola che finisce per spingersi oltre le intenzioni, pungendo con grande sarcasmo sia i personaggi più fragili che quelli più agiati.
Il cinismo corale presente in “Happiness” è altamente sconsigliato ai cultori del mainstream: le mostruosità che ci circondano possono nuocere gravemente alla salute mentale di chi non è in grado di capirle o accettarle. Tutti gli altri sono invece i benvenuti, in fin dei conti questo lungometraggio non solo rappresenta uno dei lavori più pericolosi usciti al termine dello scorso millennio, ma è anche il punto di partenza obbligatorio per cominciare a esplorare la filmografia di questo controverso e indomito regista.
(Paolo Chemnitz)