di Paul Schrader (Stati Uniti, 1979)
Ci sono alcuni inevitabili punti di contatto tra “Taxi Driver” (film di cui Paul Schrader fu sceneggiatore) e “Hardcore”, secondo lavoro come regista per Schrader dopo “Blue Collar” del 1978. Anche in questo caso veniamo catapultati nella giungla metropolitana più infima, dopotutto dalla notte di New York a quella di Los Angeles il passo è breve. Inoltre con “Hardcore” il tema della prostituzione minorile diventa centrale, rimettendo in circolo quanto già assaporato con “Taxi Driver” (1976) attraverso la figura di Iris (una giovanissima Jodie Foster). Ma questa pellicola non è assolutamente da considerare un’appendice del capolavoro di Martin Scorsese, perché Schrader in alcuni momenti alza inesorabilmente il livello di morbosità, raccontandoci sotto nuove prospettive i contrasti dell’America di fine 70s.
L’incipit è quanto di più rassicurante si possa immaginare: ci troviamo nel tranquillo midwest (esattamente a Grand Rapids, Michigan, la città del regista) ed è Natale, la religiosa famiglia di Jake Van Dorn è riunita per celebrare questa festività e l’atmosfera è gioiosa e rilassata. C’è molto di autobiografico tra questi fotogrammi, l’infanzia di Paul Schrader era stata infatti segnata dall’osservanza di rigidi principi calvinisti, un passaggio chiave che viene rimodellato sulle spalle del protagonista Jake, un imprenditore benestante che sta plasmando la figlia Kristen a sua immagine e somiglianza. La teenager è in partenza per la California con altri coetanei per un convegno religioso, ma una volta giunta a destinazione le sue tracce scompaiono e per il padre inizia un calvario nel sottobosco pornografico di San Diego, Los Angeles e San Francisco, dove Kristen si è già messa all’opera. Una corsa contro il tempo che porta Jake a infiltrarsi tra le maglie di un mondo a lui completamente sconosciuto, un ambiente persino pericoloso considerando che il confine tra pornografia e sadici snuff movies qui sembra piuttosto labile.
“Hardcore” è un film completamente spaccato in due: il moralismo di Jake è costretto a scendere a compromessi con l’inferno della metropoli californiana, dove il bigottismo provinciale viene letteralmente divorato dall’edonismo che ruota attorno al sesso e al divertimento. E’ lo specchio di un’America che sta percorrendo due strade inconciliabili tra loro, due estremi privi di un qualsiasi equilibrio e quindi entrambi dannosi per l’essere umano. Un vicolo cieco perso tra ossessioni religiose ed emancipazioni forzate. Anche lo stacco tra il giorno e la notte è netto, così come il passaggio dal candore della neve alle invitanti luci al neon dei vari club della città. In questa magnifica location si muove un personaggio in cerca di giustizia (anche la giustizia privata segue il corso di “Taxi Driver”) ma soprattutto di verità, un sentiero ostile in cui l’indagine diventa sempre più torbida e affascinante.
Il regista sacrifica in parte la tensione puntando molto sulla caratterizzazione di Jake (eccelsa la prova di George C. Scott), il perno su cui girano tutte le vicende del film, un uomo cresciuto dentro una campana di vetro che scopre se stesso confrontandosi con un terreno inesplorato, almeno fino a quel momento. Con “Hardcore” Paul Schrader dirige un thriller atipico e coraggioso, da annoverare tra le sue migliori pellicole in assoluto.
(Paolo Chemnitz)