di Paul Verhoeven (Olanda, 1973)
La brillante carriera di Paul Verhoeven parte da molto lontano, esattamente da quel periodo olandese che nel giro di pochi anni lo pone all’attenzione del grande pubblico internazionale. Che Verhoeven sia giustamente considerato il più noto regista dei Paesi Bassi è un dato di fatto: “Fiore Di Carne” (“Turks Fruit” nel titolo originale, dall’omonimo libro del 1969) non solo ha sbancato i botteghini, ma è stato eletto in patria miglior film orange dello scorso secolo, raggiungendo persino la cinquina finale per la candidatura all’Oscar (categoria pellicole straniere). Si tratta di un’opera terribilmente drammatica, nonostante le premesse iniziali siano completamente differenti.
Erik è un artistoide dalla vita piuttosto sconclusionata con l’hobby per il sesso occasionale: lui le donne le rimorchia per strada, se le porta a casa e poi conserva qualche ricordo legato all’amplesso in un libro archivio che tiene nel suo appartamento. Una partenza brillante, fulminante e divertente (anche se la prima scena è di taglio horror!), praticamente una commedia dissacrante incentrata su questo simpatico ma sgangherato protagonista (un giovane Rutger Hauer spesso ripreso interamente nudo). Erik però ha un cuore, infatti si innamora follemente di Olga (Monique Van De Ven), una ragazza dai capelli rossi con la quale successivamente si sposa, nonostante l’ostilità della madre di lei verso quel giovanotto senza grandi prospettive. “Fiore Di Carne” si sviluppa attraverso il burrascoso ma credibile rapporto tra Erik e Olga (bravissimi i due attori), non la solita smielata love story hollywoodiana ma una relazione schietta e sincera, contornata sia da un erotismo esplicito che da azioni e da comportamenti che travalicano senza troppi complimenti il politicamente corretto. Paul Verhoeven imprime ritmo e giocosità alle vicende, lasciando affiorare repentinamente la morbosità (che diventa opprimente nella seconda parte del lavoro) e infine la sofferenza, due aspetti che all’improvviso fagocitano le disinvolte dinamiche assaporate in precedenza.
Possiamo rimproverare poco o nulla a “Fiore Di Carne”, probabilmente è un’opera a cui manca un certo equilibrio nel triste ma significativo passaggio verso gli eventi drammatici, un colpo durissimo che il regista ci sbatte in faccia senza nascondere la mano. Un fiore che sboccia, risplende e poi brucia impietosamente, da cento a zero in un attimo. Una poetica del dolore che ritroviamo pochi anni dopo nel cinico e spiazzante “Spetters” (1980), il film scandalo di Verhoeven. Ma “Fiore Di Carne” è un passaggio obbligato non solo all’interno del cinema olandese, perché una storia d’amore così eccessiva e passionale prende completamente le distanze dagli standard a cui è abituato il grande pubblico da multisala, ponendosi in netta antitesi con esso. Un film tenero e romantico ma allo stesso tempo crudele e spietato, capace di raccontare un sentimento così forte attraverso la trasgressione e la libertà e quindi aggirando le derive patetico-moraliste di tante finte pellicole melò. Quanta umanità tra questi fotogrammi.
(Paolo Chemnitz)