di Martin Scorsese (Stati Uniti, 1976)
Il cinema di Martin Scorsese meriterebbe un’intera monografia, non solo perché il regista americano è uno dei maggiori esponenti della cosiddetta New Hollywood ma anche per le tematiche ricorrenti nelle sue pellicole: violenza istintiva e realistica, peccato, colpa e religione, tutti argomenti che ci riguardano molto da vicino. Parlare di “Taxi Driver” significa dare spazio a uno dei lavori più radicali, cupi e disperati dei 70s, un lungometraggio figlio delle ansie post Vietnam e del disagio personale vissuto in quel periodo dallo sceneggiatore Paul Schrader. “Taxi Driver” incarna una vera e propria discesa nell’inferno urbano di New York, un film di trasformazione e di purificazione che trasuda anarchia e individualismo.
Robert De Niro è Travis Bickle, protagonista indiscusso di questa mutazione, un ex marine disadattato e da poco congedato: la sua insonnia cronica lo porta a lavorare come tassista notturno, mentre il suo unico svago è la visione di film pornografici nei più squallidi cinema a luci rosse. Travis è affascinato da Betsy, un’impiegata dello staff elettorale del senatore di New York Charles Palantine (candidato alle elezioni presidenziali), il quale promette grandi cambiamenti sociali. Ma il protagonista, sempre più disgustato dal degrado morale che lo circonda e in preda a forti disturbi di personalità, compra delle pistole e inizia a fare pulizia attorno a sé, una giustizia privata che trova l’esplosione definitiva in una sparatoria passata agli annali del cinema, l’apoteosi registica che sancisce il genio di Scorsese (la scena in questione viene ancora oggi sezionata ed esaminata durante le lezioni accademiche).
“Taxi Driver è un film alla cocaina. Grande stress, tempi stretti e pochi soldi. New York d’estate, riprese in notturna. Io sono stata sul set soltanto una volta e sniffavano tutti”, questa la testimonianza della produttrice Julia Phillips, che racconta in un suo libro di un’atmosfera caotica e opprimente dove ogni situazione veniva portata alle estreme conseguenze. Praticamente un’opera senza compromessi, girata tra giugno e settembre del 1975 e destinata a diventare un modello di riferimento costante anche dal punto di vista culturale. Il taglio di capelli alla moicana di Robert De Niro (ma soprattutto la sua indole anarchica) collima persino con la nascente moda punk contemporanea, quasi a volerne condividere quegli impulsi irrazionali di matrice antiborghese. Una lucida follia che ritroviamo di continuo in questo incredibile capolavoro, definito dal regista stesso una sorta di western urbano, una constatazione assolutamente veritiera considerando lo sviluppo degli eventi: l’alienazione (l’antieroe che vaga solitario nella metropoli) che si risolve in un tragico evento di sangue (la sparatoria finale come nella migliore tradizione western).
Scorsese agita paranoia e nichilismo in questo contenitore inscindibile dalle insicurezze sociali di un paese uscito malridotto dal conflitto in Vietnam, una frustrazione che viene interamente messa sulle spalle di Travis, il sociopatico per eccellenza che parla a se stesso davanti allo specchio (“you talkin’ to me? You talkin’ to me? You talkin’ to me? Then who the hell else are you talking… you talking to me? Well I’m the only one here. Who the fuck do you think you’re talking to? Oh yeah?”), un monologo (improvvisato) poi citato in tantissime pellicole successive (tra cui “L’Odio”di Mathieu Kassovitz). Quando un dramma esistenziale diventa un monumento cinematografico.
(Paolo Chemnitz)