di Don Edmonds (Stati Uniti, 1972)
Il nome di Don Edmonds (nato in Missouri nel 1937 e morto di cancro in California nel 2009) è legato esclusivamente a un’icona del cinema di genere degli anni settanta, la prosperosa attrice Dyanne Thorne, diretta dal regista nei primi due capitoli della celebre trilogia dedicata alla sadica Ilsa (“Ilsa, La Belva Delle SS” e il successivo “Ilsa, La Belva Del Deserto”). Edmonds è stato anche un prolifico attore televisivo e persino un produttore, è raro quindi imbattersi in altre pellicole da lui realizzate (in tutto otto e sconosciute ai più, eccetto le due sopracitate). Oggi però siamo riusciti a recuperare il suo debutto assoluto dietro la telecamera, un b-movie scarno e povero di contenuti ma allo stesso tempo intriso di splendide atmosfere 70s, tra cui dobbiamo includere qualche immancabile rimasuglio connesso alle vicende di Charles Manson e della sua combriccola di psicopatici.
Donna Young è Gypsy, una ragazza di campagna costretta a subire continue umiliazioni (anche sessuali) da parte del padre. Ma la città offre la possibilità di ricominciare una nuova vita, così la protagonista fugge da quel luogo deprimente per scoprire le attrazioni e le trasgressioni di una metropoli come Los Angeles: droga (LSD ovviamente), sesso libero (orge, threesome, amore saffico) e persino la frequentazione di una setta devota al maligno. E’ il 1972 e la cultura hippie ha ancora molto da dire, nonostante molti americani – in seguito ai tragici eventi di 10050 Cielo Drive – guardino con totale disprezzo questi ribelli di ultima generazione. Don Edmonds aggira completamente la narrazione segmentando “Wild Honey” in tante piccole situazioni, ognuna delle quali capace di raccontarci un pezzo delle (dis)avventure di Gypsy. La ragazza è ingenua, si lascia trascinare dal gruppo, praticamente la donna cazzuta e dominante del cinema di Russ Meyer qui lascia il posto a una fragile controparte che si butta a capofitto in un mondo nuovo tutto da esplorare.
“Wild Honey” è sexploitation senza pretese di alcun tipo, a parte qualche forzatura buttata a caso (il tizio che legge il Mein Kampf) che possiamo comunque ricollegare alle future scorribande naziste della cattivissima Ilsa. Anche per questo motivo “Wild Honey” è un film propedeutico alle pellicole successive dirette dal regista americano, il primo passo di una carriera mai realmente decollata ma almeno onesta dal punto di vista delle intenzioni. Ottanta minuti scarsi di suggestioni psichedeliche e di corpi nudi che si avvinghiano tra loro assetati di piacere, nonostante esista una versione di oltre novanta minuti probabilmente arricchita con qualche scena più hard. Ma è già un miracolo aver scovato e visionato questo lavoro finito subito nel dimenticatoio, prima di oggi mai discusso o recensito in Italia.
(Paolo Chemnitz)