La Quinta Stagione

la cinquieme-saison-25613-600-600-Fdi Peter Brosens e Jessica Woodworth (Belgio/Olanda, 2012)

Dopo le steppe della Mongolia (“Khadak”) e le montagne del Peru (“Altiplano”), la coppia di registi composta da Peter Brosens e Jessica Woodworth torna in patria per un terzo lungometraggio di alto livello. Giocare in casa (in Belgio) significa conoscere a memoria il proprio territorio ma soprattutto il proprio background culturale, visto che “La Quinta Stagione” (“La Cinquième Saison”) è anche un sentito omaggio alla pittura fiamminga del celebre Pieter Bruegel il Vecchio. Un film pittorico, criptico e simbolico quindi, diretto erede di alcune pellicole già viste in passato ma carico di un fascino ancestrale senza tempo.
In un villaggio rurale vive una piccola comunità che si appresta a festeggiare la fine dell’inverno con il consueto falò annuale. Le fiamme però non si propagano e l’allegria di quei paesani presto si traduce in preoccupazione e sgomento. Il passaggio da una stagione a un’altra è stato praticamente annullato e lo stesso accade con l’arrivo dell’estate, quando la terra ormai è ridotta a una landa desolata: i galli non cantano più, le mucche non producono più latte, le api scompaiono e dal cielo cade persino la neve. Alice e Thomas, due adolescenti in preda alla passione, perdono sempre di più il contatto con la realtà, la gente è annichilita e disperata, i rapporti umani si sgretolano e per quelle persone l’unica soluzione è trovare un capro espiatorio da sacrificare.
Peter Brosens e Jessica Woodworth scelgono la via del minimalismo, del silenzio, delle inquadrature in campo lungo, citando non solo la pittura fiamminga ma anche il cinema sospeso di Andrej Tarkovskij: inoltre – almeno a livello concettuale – non mancano le similitudini con il colosso “Il Cavallo Di Torino” (2011) di Béla Tarr, una lenta apocalisse che lancia continui segnali nefasti legati indissolubilmente ai cicli naturali. E’ proprio la natura a tornare al centro dell’universo, lasciando che l’uomo scivoli nella superstizione perdendo sia la razionalità che i sentimenti (le maschere incarnano senza mezzi termini la triste spersonalizzazione degli individui). Infine, è importante rimarcare il ruolo del rituale pagano come esperienza salvifica e ultima possibilità prima della catastrofe, un sacrificio che contempla una vittima prescelta dalla comunità. In questo caso “The Wicker Man” (1973) diventa un modello non trascurabile, soprattutto nella parte conclusiva del film.
“La Quinta Stagione” non è una visione facile da approcciare: le metafore da cogliere sono parecchie (a dir poco ermetica la presenza degli struzzi) e non sempre il pessimismo strisciante proposto dai due registi si traduce in qualcosa di concreto. Ma al di là delle dinamiche puramente simboliche, questo lungometraggio merita più di un elogio, anche solo alla luce delle sue immagini così profonde ed inquietanti, riflessioni mai banali sull’inconsistenza dell’essere umano (sempre più avido e vorace) davanti alla grandezza dell’universo. La conquista dell’inutile, come direbbe il saggio Werner Herzog.

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(Paolo Chemnitz)

la quinta

 

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