Cape Fear – Il Promontorio Della Paura

cape feardi Martin Scorsese (Stati Uniti, 1991)

Every man has to go through hell to reach paradise”. Questa frase pronunciata da Max Cady (Robert De Niro) riassume molti aspetti di “Cape Fear – Il Promontorio Della Paura”, remake dell’omonimo thriller diretto nel 1962 da J. Lee Thompson. Martin Scorsese accetta e vince una scommessa non facile, visto l’ottimo livello della pellicola originale (ispirata a un romanzo di John Dann MacDonald), la quale a sua volta mostrava rimandi espliciti al cinema di Alfred Hitchcock. Scorsese qui non solo si mantiene fedele all’ossatura portante del prototipo, ma aggiunge un pizzico di sale alla storia puntando anche sui malumori e sui conflitti all’interno della famiglia al centro delle vicende.
Nick Nolte interpreta Sam Bowden, un avvocato rampante di grande fama che vive con la moglie Leigh (Jessica Lange) e la figlia quindicenne Danielle (Juliette Lewis). Quando il sadico e violento Max Cady viene rilasciato dal penitenziario in cui stava scontando la sua pena, Sam viene da lui rintracciato e perseguitato senza un attimo di tregua: tanti anni prima (nel 1977) l’avvocato era stato il suo difensore in un processo per stupro, ma Cady non era stato tutelato al meglio, anzi Sam Bowden aveva praticamente trascurato il suo assistito lasciando che finisse a marcire in carcere per molto tempo. Dopo alcune minacce che non sfociano mai nell’illegalità, il palestrato Max Cady passa alle maniere forti, prima avvelenando il cane della famiglia e poi violentando brutalmente l’amante dell’avvocato. Una reazione a catena che si evolve minuto dopo minuto, in attesa dei fuochi d’artificio del pirotecnico ed esagerato finale.
“Cape Fear” punta sullo sfinimento della famiglia Bowden, merito di un magistrale Robert De Niro (il suo carisma offusca qualunque cosa) il cui personaggio si rivela sapiente, astuto, cinico e comunque non meno infame della sua controparte, un avvocato che cerca di ripagare l’ex carcerato con la sua stessa moneta. In questo film la violenza chiama la violenza, Scorsese infatti non nasconde mai la mano, anzi quando si tratta di premere sull’acceleratore lo fa senza problemi (forzando anche alcune situazioni, come tutto l’epilogo che di verosimiglianza ne ha davvero poca).
La regia è incalzante ed evita i tempi morti, una scelta che rende questo lungometraggio più commerciale rispetto ad altri dello stesso regista, senza però snaturarne l’estetica portante. “Cape Fear” inoltre è un thriller pruriginoso (la scena ambigua con Max Cady e la figlia adolescente dei Bowden), nel quale il lato oscuro non solo è incarnato dal feroce Robert De Niro e dalle sue citazioni bibliche: qui la famiglia non è irreprensibile ma vacilla di continuo, invischiata tra ombre del presente e del passato che riaffiorano inesorabilmente. L’aspetto interessante sottolineato da Martin Scorsese è da ricercare proprio qui, al di là del filo conduttore legato alla vendetta e alla persecuzione. Una nucleo familiare fragile, davanti a una tempesta, si scompone molto più velocemente rispetto a una risposta comune compatta, razionale e assennata. Un film dai connotati antiborghesi quindi, disseminato dalla geniale anarchia di un personaggio perturbante a dir poco eccessivo ma sicuramente azzeccato. Se il lavoro del 1962 si dimostrava più raffinato e lineare (anche nella netta divisione a scompartimenti Bene versus Male), quello del regista del Queens è quanto di più vicino al crollo dei valori del sogno americano: l’elemento negativo ora è trasversale e può manifestarsi sia nella mente di uno psicopatico che sotto gli abiti eleganti di un ricco professionista.

4

(Paolo Chemnitz)

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