Misery Non Deve Morire

miserydi Rob Reiner (Stati Uniti, 1990)

Le opere di Stephen King hanno sempre trovato terreno fertile in ambito cinematografico, grazie a una serie infinita di trasposizioni più o meno riuscite. Nonostante alcuni flop annunciati (neppure pochi a dire il vero), qualche titolo è riuscito comunque a entrare nella storia del cinema: pensiamo a “Carrie” (1976), a “Shining” (1980) o più recentemente a “Il Miglio Verde” (1999). Ma sul podio c’è spazio anche per “Misery”, un thriller che ricordiamo tutti per la psicopatica protagonista, Annie Wilkes, qui interpretata da una superba Kathy Bates (per lei meritato Oscar nel 1991).
Il libro di King è sicuramente tra quelli che più si prestano all’adattamento su schermo, non a caso lo sceneggiatore William Goldman porge lo script al regista Rob Reiner su un piatto d’argento. Due sono gli elementi sui quali è impossibile sbagliare, le atmosfere e i personaggi: nel primo caso, ci troviamo nuovamente in un Colorado sepolto dalla neve, un ambiente ostile che crea isolamento (esattamente come era accaduto per “Shining”). Una situazione ideale per lo sviluppo della paranoia e di un sinistro spaesamento.
Quando lo scrittore Paul Sheldon (un bravo James Caan) viene salvato in seguito a un incidente dalla sua fan sfegatata Annie, il rapporto tra i due si evolve come in un gioco di specchi. La donna non gradisce il nuovo manoscritto di Paul (che prevede la morte di Misery), così la devota infermiera si trasforma in una crudele aguzzina, perché quel romanzo da lei tanto amato non si deve assolutamente concludere. Il regista sfrutta al massimo i due interpreti, li confronta, li studia, li fa sospettare reciprocamente tra di loro, fino a sprofondare nell’horror nella scena delle caviglie fratturate a colpi di mazzuolo (che sostituisce l’ascia impiegata nel libro).
“Misery Non Deve Morire” è un film patologico, in apparenza innocuo (“I’m your number one fan. There’s nothing to worry about. You’re going to be just fine. I will take good care of you. I’m your number one fan”), un incubo che si rivela lentamente devastando di tensione lo spettatore e inchiodandolo alla poltrona per oltre cento minuti. Un clima stemperato da un paio di figure secondarie (lo scambio di battute tra lo sceriffo e la moglie), le quali completano questo panorama (sulla carta) semplice ma tremendamente efficace sia dal punto di vista narrativo che da quello psicologico. Tutto è così ossessivo e perverso: gli stessi sentimenti dei vari protagonisti si dimostrano contraddittori, poiché questa lotta ambigua tra bene e male è sfruttata da Rob Reiner con ingegno e acutezza. Salvare Misery significa salvare Paul, ma se il personaggio del romanzo deve vivere per sempre sulla carta, Paul per Annie deve vivere per sempre su quel letto. Una dinamica malsana e disturbante.
Il pubblico e la critica decretarono il successo del film, che realizzò solo negli Stati Uniti un incasso di oltre sessanta milioni di dollari a fronte di un budget stimato di venti milioni. “Misery” è un thriller tra i migliori degli anni novanta e ancora oggi il suo ricordo è più vivo che mai nei nostri occhi: basta una Kathy Bates in stato di grazia per poter parlare senza troppi giri di parole di capolavoro.

5

(Paolo Chemnitz)

Misery-

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