Imprint

imprintdi Takashi Miike (Stati Uniti/Giappone, 2006)

Quando nel 2005 Mick Garris riunisce un nutrito gruppo di registi per metterli alla prova con un mediometraggio di circa un’ora (destinato all’emittente televisiva via cavo Showtime), non esistono limitazioni per nessuno. Le esigenze produttive della serie “Masters Of Horror” lasciano infatti assoluta libertà creativa: succede però che Takashi Miike non solo prende alla lettera quanto detto, ma si spinge oltre il dovuto, dirigendo quello che si può ritenere uno dei suoi prodotti più estremi in assoluto. Così, dopo dodici puntate firmate da gente del calibro di John Carpenter, Dario Argento, Tobe Hooper, Joe Dante e tanti altri, l’ultima prevista non viene messa in onda poiché considerata troppo brutale anche per un pubblico televisivo di veri horror maniaci. “Imprint” deve attendere alcuni mesi prima di essere pubblicato in dvd, unica via possibile dopo il veto imposto in America da Showtime.
Ci troviamo nel Giappone del XIX° secolo: un giornalista americano (Christopher, interpretato da Billy Drago) si mette alla ricerca di una geisha di cui si era innamorato in un viaggio precedente. Durante il tragitto l’uomo approda su un’isola misteriosa dove incontra una prostituta dal viso sfigurato, la quale inizia a raccontare tutti i retroscena legati all’amante del protagonista. Sospettata di un furto, la geisha era stata vittima di torture indicibili. Le torture appunto, talmente sadiche e insistite da turbare persino lo stesso Mick Garris, costretto suo malgrado a scendere a patti con l’emittente televisiva e con Miike (in realtà per nulla infastidito da questa decisione).
This island isn’t in the human world, demons and whores are the only ones living here”, in effetti c’è poco da stare allegri in questo luogo di perdizione. Feti morti gettati in acqua, aghi conficcati sotto le unghie, incesto e abusi di ogni genere, “Imprint” è la dannazione fatta cinema, un inferno che il regista giapponese lascia cuocere a fuoco lento nonostante la breve durata del lavoro (che comunque prevede alcuni sorprendenti colpi di scena). Takashi Miike aggira qualunque forma di autocensura osando come nel suo stile, una scelta naturale e consapevole che permette al film di essere ricordato come il migliore episodio della serie (il fatto che non sia stato inserito nel palinsesto diventa quasi un motivo di orgoglio!). Anche la regia e la fotografia si assestano su livelli al di sopra della media, Miike non trascura nessun aspetto della pellicola ammantando di teatralità sia le scenografie che i personaggi e sovrapponendo il realismo della violenza con un gusto visionario dai toni dark.
“Imprint” è orrore, è anarchia, è il male che si manifesta sia nelle azioni che nelle parole: anche il racconto della prostituta non è mai lineare e nasconde un’ambiguità di fondo mai risolutiva, come se il regista volesse ingannare non solo Christopher ma anche noi spettatori. Il fatto che Miike si prenda gioco di tutti è solo una delle prerogative che rendono speciale questo episodio, che inseriamo di conseguenza nella categoria dei film proprio alla luce del suo controverso destino. Una fiaba nerissima che si tramuta in un pugno nello stomaco.

4

(Paolo Chemnitz)

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