Sea Fog

di Sung-Bo Shim (Corea del Sud, 2014)

Dopo tanti anni, la strada di Bong Joon-Ho ha incontrato nuovamente quella di Sung-Bo Shim: se nell’ormai lontano 2003 i due avevano scritto insieme uno dei thriller più importanti di inizio secolo (“Memories Of Murder”), dopo oltre due lustri è stato Bong Joon-Ho a ricambiare il favore, producendo e sceneggiando insieme al collega questo discreto “Sea Fog” (“Haemoo”), primo e unico film per ora diretto da Sung-Bo Shim.
La storia si svolge quasi esclusivamente a bordo di un vecchio e puzzolente peschereccio, prendendo spunto da un evento realmente accaduto nel 2001 (chiamato in patria The 7th Taechangho Accident). Il Capitano Kang Chul-Joo è indebitato fino al collo: la possibilità di un facile guadagno non tarda comunque ad arrivare, basta far salire a bordo della barca un gruppo di immigrati clandestini diretti dalla Cina alla Corea. L’incarico è delicato, anche perché il resto della ciurma è costituito da uomini rozzi e volgari a cui non interessa affatto il destino di questi profughi. Uno dei marinai si dimostra però umano e sensibile, prima salvando in mare una giovane donna (Hong-Mae) e poi innamorandosi di lei. È proprio attorno alle vicende di questa ragazza che il film, durante la seconda parte, prende una direzione diversa rispetto ai presupposti iniziali.
“Sea Fog” nasce come un intenso thriller prima di trasformarsi in un duro (melo)dramma non privo di amare sorprese: in fin dei conti, nessun individuo presente sul peschereccio può sperare in un futuro migliore, perché se da un lato il gruppo di immigrati deve presto scontrarsi con la più infame delle situazioni, anche l’equipaggio non può che affrontare l’ennesima traversata aggrappandosi a una manciata di futili illusioni basate sulla prevaricazione del prossimo (pure su quell’imbarcazione vige la regola dell’homo homini lupus. Quando ci sono di mezzo gli esseri umani, non potrebbe essere altrimenti).  
Lo stile della pellicola, a metà strada tra cinema di genere (si poteva osare di più!) e blockbuster facilmente vendibile al grande pubblico, non ci permette di entrare a gamba tesa nel cuore delle vicende: a farne le spese sono soprattutto i personaggi, caratterizzati male per via di un taglio fin troppo superficiale. Questo è il limite più evidente di un prodotto comunque interessante, non solo per l’affascinante nonché minacciosa location, ma anche per la tragica evoluzione di una storia capace di far riflettere su un problema sempre attuale (oltre che universale). L’ennesima trappola in alto mare.

(Paolo Chemnitz)

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