
di Jordan Peele (Stati Uniti/Giappone/Canada, 2022)
Jordan Peele è un regista sopravvalutato? Adesso, dopo aver visto “Nope”, una domanda di tale entità diventa più che lecita. Un peccato, perché se avevamo apprezzato non poco l’inquietante esordio “Get Out” (2017), già con il successivo “Us” (2019) la carne al fuoco si era drammaticamente moltiplicata: ambizioni forse eccessive per un nome entrato con troppa fretta nelle grazie dei circuiti hollywoodiani.
I personaggi di Jordan Peele adesso non guardano più con sospetto i loro simili, poiché i risvolti socio-politici dei primi due lavori qui lasciano spazio a una deriva fantascientifica non priva di riferimenti al cinema di Steven Spielberg (e non solo). Oggi i loro occhi sono rivolti verso l’alto, perché una minacciosa nuvola si è appena posizionata sopra il ranch di OJ Haywood (Daniel Kaluuya) e di sua sorella Emerald (Keke Palmer), un luogo dove vengono addestrati dei cavalli poi impiegati nelle produzioni cinematografiche o televisive. Il padre dei due protagonisti è morto in circostanze misteriose, colpito da un oggetto metallico caduto dal cielo: frammenti di un aereo? Non proprio.
La pellicola, dopo una discreta fase iniziale, pone in contrasto la delicata situazione finanziaria di OJ e di Emerald (l’attività del ranch è in crisi) con gli sviluppi della tragedia di cui sopra, svelando le carte con eccessiva parsimonia (mettiamo subito le cose in chiaro: “Nope” dura la bellezza di centotrenta minuti, ma tagliandone una ventina nessuno si sarebbe accorto di nulla). Se i personaggi fossero stati caratterizzati meglio, l’interesse nei confronti nel film sarebbe rimasto tale anche durante i passaggi più superflui, invece a lungo andare siamo costretti a fare i conti con il piattume di OJ (carisma non pervenuto) e con l’eccessiva esuberanza di sua sorella (simpatica più o meno come la sabbia nel culo). I dialoghi, per giunta, non aiutano affatto. Per fortuna c’è un terzo incomodo, il tecnologico Angel, un tizio che funziona molto meglio rispetto agli Haywood (è scontato ribadirlo, OJ ed Emerald sono interpretati da due attori di colore, altrimenti non sarebbe un film di Jordan Peele).
Al regista newyorkese (qui supportato da un’ottima fotografia) le intuizioni non mancano, ma tali scintille restano piuttosto isolate all’interno di un contesto generale decisamente vuoto di contenuti. Eppure, la critica specializzata si è scatenata alla ricerca di metafore più o meno fantasiose per sostenere un fantomatico messaggio presente nel film, come se “Nope” fosse una pellicola impegnata a tutti i costi. Questa volta, ci dispiace affermarlo, la sostanza corrisponde suppergiù a una spruzzata di vapore nell’aria, al di là di qualche appiglio abbastanza credibile (le telecamere utilizzate per riprendere l’entità extraterrestre non possono che farci pensare alla spettacolarizzazione della realtà e del male stesso, da tempo divenuto strumento essenziale per raggiungere la fama e la ricchezza). Ma non basta, perché “Nope” mette in circolo una superficialità a tratti disarmante, anche durante la gestione della tensione (sia chiaro, questo non è un horror che deve inchiodarci alla poltrona, però non c’è un momento in cui bisogna trattenere il respiro).
Adesso siamo in grado di rispondere alla domanda iniziale. Jordan Peele, dopo tre lungometraggi, non ha mantenuto le promesse. Non importa se oggi egli sia considerato un regista sopravvalutato o meno, perché per lui (anzi, per noi!) il problema di fondo è un altro: Peele ora fa cinema fantastico per le masse, quello più innocuo però. “Nope” infatti vale un’unghia rispetto a “Incontri Ravvicinati Del Terzo Tipo” (1977) ma anche rispetto a “Signs” (2002), due titoli che hanno influenzato non poco le idee alla base di questa pellicola. Per noi è Nope, di nome e di fatto.

(Paolo Chemnitz)
