
di Bong Joon-Ho (Corea del Sud/Repubblica Ceca, 2013)
Senza dover per forza separare queste due scuole con l’accetta, è tuttavia innegabile che ci siano differenze enormi (storiche, estetiche e culturali) tra il cinema di matrice orientale e quello di matrice occidentale. Curiosamente, proprio nel 2013, escono tre film in cui accade qualcosa di trasversale: se Park Chan-Wook gira a Hollywood “Stoker” (un’opera indubbiamente raffinata dove comunque si avverte la mancanza di empatia tra il regista e gli attori), l’americano Spike Lee rielabora il cult “Oldboy” (guarda caso di Park Chan-Wook) collassando su un improponibile modello occidentale. Da questo incontro/scontro estetico a uscirne (quasi) vincitore è il terzo contendente, l’ormai veterano Bong Joon-Ho, qui alle prese con una produzione ibrida est/ovest nella quale convivono elementi di diversa estrazione.
L’idea di “Snowpiercer” nasce da una graphic novel francese intitolata Le Transperceneige, un fumetto di fantascienza apocalittica: la Terra sta vivendo una nuova glaciazione e gli unici sopravvissuti sono stipati all’interno di un treno che percorre il giro del globo mettendoci un anno esatto. Nelle ultime carrozze sono stanziati i poveri, in quelle centrali vengono svolte varie attività (c’è una scuola ma ci sono anche delle serre e degli acquari per preservare alcune specie animali e vegetali), mentre in testa al convoglio c’è la sacra locomotiva seguita dai vagoni dove alloggiano i ricchi. L’obiettivo di Curtis (un fiacco Chris Evans) è quello di scatenare una rivolta partendo dal basso, per sovvertire l’ordine sociale presente sul treno.

Questo non è affatto un film originale, anche perché in passato di metafore che vertono sul rapporto caos/ordine ne abbiamo viste a pacchi. Per i governanti, non c’è popolo se non c’è una guida a condurlo o a subordinarlo (“hai visto cosa fanno gli uomini senza un capo? Si divorano a vicenda”). Davanti al facile didascalismo presente tra questi fotogrammi, emerge tuttavia una sensazione di profonda claustrofobia e qualche sorprendente nota positiva nel cast (Tilda Swinton è fantastica ma il vero personaggio chiave del film è il tossico Minsoo, interpretato dall’attore feticcio Song Kang-Ho). La prima parte, seppur con qualche idea rubacchiata qua e là (le tavolette proteiche le abbiamo già assaggiate in “Soylent Green”), è infatti molto avvincente ed è magistralmente tenuta in pugno dal regista coreano, la cui mano supera gli evidenti limiti coreografici (le scene action non sono impeccabili) e qualche dialogo al limite del patetico. Si rivelano invece meno interessanti le ultime fasi della risalita, eccessivamente artificiose (in determinati ambienti) ma anche in alcuni risvolti più o meno attendibili, nonostante sia ben chiaro fin dall’inizio che da “Snowpiercer” non bisogna certo attendersi verosimiglianza (il creatore stesso del treno, tale Wilford, riesce persino a farci sorridere in quanto non troppo dissimile per atteggiamenti al megadirettore galattico di fantozziana memoria).
In definitiva, dentro questa arca di Noè in versione distopica, accade tutto e il contrario di tutto: questo per rimarcare quanto un grande regista come Bong Joon-Ho possa comunque incappare in alcune contraddizioni legate per l’appunto al linguaggio trasversale della pellicola, ricca sia di geniali intuizioni di matrice orientale che di futili banalità figlie del cinema hollywoodiano da multisala. Il risultato è dunque discretamente valido ma non entusiasmante, al di là del fatto che “Snowpiercer” sia comunque un film degno di essere ricordato all’interno del suo filone di appartenenza. Perché quando si parla di ricchi e poveri, il cinema sa come si entra a gamba tesa sull’argomento.

(Paolo Chemnitz)
