di Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel (Francia, 2017)
Nel 2017 “Caniba” vince il premio speciale nella sezione Orizzonti al Festival di Venezia, un riconoscimento gradito soltanto da una piccola fetta di pubblico e di critica. In effetti quello diretto dai registi Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel è un documentario piuttosto ostico, sia per l’argomento trattato che per il linguaggio estetico scelto per realizzarlo. Ma iniziamo a conoscere il protagonista assoluto delle vicende, il famigerato Issei Sagawa (nato a Kōbe nel 1949).
Sagawa, oggi settantenne sulla via della paralisi, è un criminale giapponese divenuto (purtroppo) famoso nel 1981, quando uccise una sua collega universitaria olandese a Parigi, per poi violentarne il cadavere. Non contento di tale abominio, l’uomo asportò un totale di sette chilogrammi di carne dal corpo della vittima, mangiandoseli gradualmente giorno dopo giorno. Arrestato in Francia ma estradato poco tempo dopo in patria, Sagawa è tornato in libertà in meno di quindici mesi, diventando praticamente una celebrità: è stato ospite in televisione, ha scritto alcuni libri di successo e ha recitato addirittura in un film di Hisayasu Satô (“The Bedroom”), prima di una sua comparsata nel porno. Nonostante gli sia stata riconosciuta fin da subito l’infermità mentale, questo inquietante antropofago ha sempre avuto un atteggiamento irriverente nei confronti dei suoi comportamenti, per Sagawa infatti il bisogno di carne è un istinto primordiale che può essere frenato soltanto con la masturbazione (ah, interessante!).
Cosa aspettarsi da “Caniba”? Un classico documentario dedicato alla tragica ricostruzione di quegli eventi? Assolutamente no, perché la coppia Castaing-Taylor/Paravel preferisce concentrarsi sugli aspetti psicologici e antropologici della faccenda: uno sguardo decisamente straniante sia sul rapporto tra il protagonista e il fratello (anch’egli tutt’altro che sano di mente) sia sui ricordi confusi di Sagawa, un approfondimento nebuloso che indaga sulla sua personale concezione di cannibalismo. Questa fosca esplorazione è accentuata dalle riprese del film, le quali prediligono dei primissimi piani spesso sfocati sul volto dell’intervistato, mentre un’impenetrabile follia sembra contagiare l’aria circostante.
“Caniba” è un doc che cuoce a fuoco lento, anche per questo motivo si tratta di un lavoro che può annoiare a morte lo spettatore: non è però un prodotto banale, tutt’altro, perché questo ritratto sensoriale di Issei Sagawa è realmente inquietante e originale, come se la mostruosità insita nel soggetto ne uscisse ancora più deformata dagli oscuri percorsi mentali illustrati dal personaggio.
Per capire quanto sia stato raccapricciante l’episodio parigino, durante la visione del doc il cannibale in esame ci mostra un manga da lui disegnato: tra queste immagini emerge tutta la folle perversione di Sagawa, qualcosa di malsano che continua a rigenerarsi pagina dopo pagina, nel ricordo di quella (per lui esaltante) tragedia. Ci sono poche spiegazioni, c’è una flebile ricerca nel passato dell’uomo, ciò che conta però è la malattia che striscia ancora tra le parole biascicate di Sagawa e nei suoi occhi gelidi, un orrore qui raccontato con estrema dedizione e coraggio da due registi interessati più all’aspetto (dis)umano che alla cronaca. Ecco perché questo criminale nipponico fa ancora paura.
(Paolo Chemnitz)