di Shaul Schwarz (Stati Uniti/Messico, 2013)
Ormai da tempo la fiction ha messo gli occhi sul confine bollente tra Messico e Stati Uniti, dove si intrecciano inesorabilmente agghiaccianti storie di immigrazione clandestina o vicende legate al traffico di stupefacenti. Pellicole come ad esempio “Frontiera” (1982), il più recente “Sicario” (2015) o la serie televisiva statunitense “The Bridge” hanno trattato vari aspetti di queste tematiche, senza comunque mai toccare con mano la più atroce realtà raccontata attraverso il documentario. Ancora prima del discreto “Cartel Land” (2015) di Matthew Heineman, è stato infatti il regista israeliano Shaul Schwarz a sbatterci in faccia l’amara quotidianità di questa gente, focalizzandosi soprattutto sui drammi di Ciudad Juárez (nello stato messicano del Chihuahua), un agglomerato urbano tra i più pericolosi al mondo per criminalità e tasso di omicidi (tra i quali dobbiamo includere una percentuale enorme di femminicidi). Questa spirale di violenza è causata in buona parte dal narcotraffico, una guerra tra bande rivali (il Cartello di Juárez contro quello di Sinaloa) alimentata dalla posizione strategica di questo luogo. Paradossalmente, una volta oltrepassato il confine di questo inferno messicano, finiamo in una delle città più sicure degli Stati Uniti, El Paso. Sono davvero pochi i metri che separano la morte dalla speranza.
Schwarz divide il film in due tronconi contrapposti: da un lato seguiamo un investigatore di nome Richi Soto, il quale accompagna il regista per le strade (poco rassicuranti) di Juárez sviscerando alcuni particolari macabri di cui spesso è testimone: se siamo fortunati riusciamo a vedere i cadaveri intatti con un proiettile ficcato in testa, perché il più delle volte questi corpi vengono ritrovati smembrati o decapitati. Un panorama desolante di paura e disperazione. Ma c’è anche un aspetto glamour piuttosto curioso e inquietante, quello dei narcocorridos, ed è proprio qui che Shaul Schwarz riesce a dare il meglio di sé: in questo caso la telecamera si incolla a Edgar Quintero, una star di questo (sotto)genere musicale tanto in voga da quelle parti (ma anche in America). Ciò che in apparenza ricalca il classico sound tradizionale messicano in realtà si rivela una celebrazione esplicita della vita di un narcotrafficante, l’equivalente del gangsta rap dei ghetti americani. Canzoni popolari sulla bocca di tutti, eppure cariche di ambigui e minacciosi significati.
Ovviamente la parte più complessa di “Narco Cultura” è anche quella meno approfondita, ma in un territorio dove le istituzioni sono impotenti (o nel peggiore dei casi, corrotte), la testimonianza di Shaul Schwarz imbocca una via traversa non meno interessante, poiché dimostra quanto il tessuto sociale abbia ormai assorbito la criminalità come costante quotidiana e non come fenomeno perturbante rigorosamente da contrastare. Ecco perché la musica dei narcocorridos rappresenta qualcosa di assolutamente normale: le armi e la droga qui contano più della dignità umana. “Narco Cultura” è quindi un buon viatico per conoscere questo malsano rapporto tra individui e narcotraffico, pur con qualche lungaggine di troppo che appesantisce questi cento minuti abbondanti di documentario.
(Paolo Chemnitz)