di Jimmy Weber (Stati Uniti, 2014)
Novella McClure è una bella trentenne in crisi, non riesce a superare nessuna audizione per diventare attrice e ormai i soldi per pagare l’affitto scarseggiano. Questa continua frustrazione nei confronti della vita viene in qualche modo sfogata attraverso episodi di autolesionismo, che in questo caso corrispondono a terribili attacchi di autofagia. In poche parole Novella punisce se stessa, mangiandosi: inizia con le unghie e lentamente spinge la sua pulsione fino alle conseguenze più estreme, in un tripudio di sangue (ottimi gli effetti) che ci trascina verso un finale tragico ma inevitabile.
Così come in altre opere simili, dove la voglia di sfondare e di diventare famosi si scontra con una realtà inquietante e annichilente (a tal proposito, consiglio il nostro approfondimento “Ambizione e competizione. La bellezza e l’orrore in sette film contemporanei”), “Eat” non lascia scampo e presto si trasforma in una spirale senza via di uscita. L’autofagia qui è espressa come la metafora di un’esistenza senza sbocchi, del sogno infranto: vorresti fagocitare il mondo dello spettacolo ma finisci costretto a cibarti del tuo corpo, un self-cannibalism che incarna una scalata al contrario, un orrore che nasconde la delusione suprema. Un’infelicità che non può essere alleviata neppure dall’ambiguo psichiatra che frequenta la ragazza, un personaggio importante assieme alla sua amica del cuore, la possessiva e psicopatica Candice (figura quest’ultima purtroppo non sviluppata in maniera approfondita).
La confezione realizzata da Jimmy Weber (qui al suo primo lungometraggio) non è esente da incertezze: “Eat” a volte si perde in dialoghi superflui e la sceneggiatura si dimostra poco coerente soprattutto nella parte conclusiva, però nel complesso il film mostra un appeal non trascurabile grazie a una valida colonna sonora e a quel piglio pop (a partire dai titoli di testa) indovinato e accattivante, una patina di plastica finto rassicurante che nasconde nel suo involucro qualcosa di pericoloso e malsano (stesso discorso che ritroviamo in pellicole come “American Mary” o “The Neon Demon”).
Nulla di fondamentale per gli appassionati di horror, ma un discreto diversivo che cattura per tutta la visione convincendo soprattutto nelle scene gore, un banchetto splatter niente male che si manifesta in un percorso di pura e viscerale autodistruzione. Un lento suicidio immergendosi nella propria carne.
(Paolo Chemnitz)