Adagio

di Stefano Sollima (Italia, 2023)

Se le recenti pellicole statunitensi dirette da Stefano Sollima non hanno lasciato alcun segno indelebile (parliamo sia di “Soldado” che di “Senza Rimorso”), non possiamo affermare la stessa cosa per quelle precedenti di matrice tipicamente romanesca. Una di queste, “Suburra” (2015), rientra senza dubbio tra i migliori lungometraggi nazionali usciti nel corso del nuovo secolo, senza dimenticare una serie di culto come “Romanzo Criminale”, il primo grande passo verso la consacrazione di Sollima in ottica crime-thriller.
È una Roma distopica quella descritta in “Adagio”, una metropoli falcidiata dagli incendi e dai blackout dove sembra esserci spazio soltanto per individui poco raccomandabili: qui si muove Manuel, un ragazzino ingaggiato da un maresciallo corrotto (Vasco) per incastrare, nel corso di un festino a base di sesso e droga, un ministro da far saltare a tutti i costi. Per il giovane protagonista, è soltanto l’inizio di un incubo. La sua missione infatti non raggiunge gli esiti sperati (egli abbandona il party rendendosi irreperibile), scatenando una guerra senza esclusione di colpi tra vecchi boss della mala.
“Adagio” è un film scritto e pensato per chiudere il cerchio su quella malavita capitolina già trattata in passato dal regista. Tuttavia, questo si rivela il suo lavoro più intimista, nel quale sia l’azione che il ritmo diventano meno importanti rispetto alle premesse. Nonostante le rare ma efficaci impennate di violenza e un mood dannatamente cupo e opprimente (sulla scia proprio di “Suburra”), l’opera sceglie di focalizzarsi sui personaggi e sulla loro epica, seguendo in parte la lezione di Michael Mann. Si tratta di criminali malconci giunti ormai al capolinea: Daytona (nel ruolo del padre di Manuel troviamo Toni Servillo) è affetto da demenza senile, Polniuman (Valerio Mastandrea avrebbe meritato maggior spazio) è cieco, mentre Cammello (interpretato da un ottimo nonché irriconoscibile Piefrancesco Favino) è gravemente malato. Un racconto corale, dunque, nel quale Sollima tenta di approfondire gli aspetti umani della criminalità, facendoli intrecciare con dinamiche di taglio drammatico-familiare. Nulla di male, sia chiaro, ma alla resa dei conti due ore abbondanti di visione diventano addirittura troppe per una storia non sempre capace di mantenere alta la nostra attenzione (complice anche qualche elemento non proprio azzeccato, come ad esempio le musiche dei Subsonica).
Dopo le incredibili scintille di “Suburra”, era lecito attendersi qualcosa di più da questo ultimo tassello sulla Roma criminale. Stefano Sollima dirige con bravura e mestiere, ma l’errore probabilmente nasce in partenza, vista l’inconsistenza narrativa di un prodotto già forzato dopo pochi minuti: perché tutto questo casino per acciuffare un ragazzino scappato da una festa? Intrecci malsani tra delinquenza e politica che a lungo andare lasciano il tempo che trovano. Peccato, qui non si va oltre le tre stelle (di stima).

(Paolo Chemnitz)

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