
di Stuart Rosenberg (Stati Uniti, 1979)
È un dato di fatto: le saghe più prolifiche del cinema horror sono indissolubilmente legate alla figura di un villain, di un personaggio capace di entrare nella memoria collettiva di tutti gli appassionati anche grazie alla sua potenza iconografica. L’eccezione che conferma la regola è tuttavia rappresentata dalla saga di Amityville, al momento arrivata a quota ventotto film (molti dei quali apocrifi). La quantità a discapito della qualità, non c’è dubbio, anche perché c’è veramente poco da salvare in questo mare sconfinato di celluloide. Ci riferiamo al primo “Amityville Horror” e poi ancora al successivo “Amityville Possession” (1982) diretto da Damiano Damiani, probabilmente il nostro preferito dell’intera serie.
Qui non è presente uno psicopatico in maschera armato di coltello, però è anche vero che questo edificio in stile coloniale sembra possedere un volto, degli occhi, un’anima nera decisamente inquietante: “le case non hanno memoria” direbbe il protagonista del film, eppure tra queste stanze riecheggia ancora la furia omicida che solo poco tempo prima sterminò un’intera famiglia. Non a caso l’opera di Stuart Rosenberg è basata sul celebre libro “Orrore Ad Amityville” di Jay Anson, un volume dedicato a un reale e raccapricciante episodio di cronaca accaduto presso l’indirizzo di 112 Ocean Avenue (Long Island), quando un giovane di nome Ronald DeFeo prese a fucilate i suoi familiari, compiendo la strage di cui sopra.

La storia segue le vicende dei nuovi inquilini stabilitisi nella casa di Amityville, i coniugi Lutz (George e Kathy) con i loro tre figli, i quali dopo neppure un mese di permanenza fuggirono terrorizzati da quell’esperienza. I fenomeni si manifestano in maniera continua subito dopo il loro arrivo: mosche che invadono l’ultimo piano, porte e finestre che si chiudono all’improvviso, oscure presenze nel buio e un liquido nero proveniente dalle tubature, mentre qualcuno comincia a sospettare che ci sia qualcosa di maligno giù in cantina. A rimetterci la sanità mentale è soprattutto George, consumato dalla paranoia e più tardi dalla follia (lo vediamo brandire un’ascia tra le mani, quasi a voler anticipare le future gesta del Jack Torrance di “Shining”). Nel giro di pochi giorni, nessuno osa più avvicinarsi alla casa, né i religiosi né i sensitivi, perché l’inferno molto probabilmente si nasconde proprio là sotto, tra quelle mura.
Tra i tanti classici del cinema horror divenuti loro malgrado i capostipiti di una lunga serie di sequel o di remake, “Amityville Horror” non è mai stato ricordato con eccessivo entusiasmo: in effetti non si tratta di un film completamente riuscito, soprattutto per colpa di una sceneggiatura farraginosa (la prima parte è fin troppo lenta) e di un cast relativamente in palla (bene Rod Steiger nei panni di Padre Delaney, al contrario di tutta la famigliola, affossata per giunta da alcuni dialoghi scritti con i piedi). Le atmosfere però funzionano e il crescendo di terrore – valorizzato dalla notevole colonna sonora composta da Lalo Schifrin – riesce comunque a invertire la rotta durante una seconda metà più malsana ed elettrizzante, con tanto di pareti che grondano sangue.
Sia chiaro, in ambito case maledette, c’è molto di meglio in giro, però “Amityville Horror” è uno di quei prodotti simbolicamente imprescindibili per il filone di riferimento, dunque da rispettare fino in fondo al di là dei suoi limiti narrativi. Dopotutto, se guardiamo il bicchiere mezzo pieno, possiamo ritenerci moderatamente soddisfatti.

(Paolo Chemnitz)
