L’Esca

di Bertrand Tavernier (Francia, 1995)

Come molti di voi avranno saputo, il cineasta francese Bertrand Tavernier ci ha lasciati pochi giorni fa all’età di settantanove anni. Per lui, un Leone d’Oro alla carriera a Venezia nel 2015 ma soprattutto due importanti riconoscimenti a Cannes (miglior regista per “Una Domenica In Campagna” del 1984) e Berlino (la vittoria nel 1995 con “L’Appât”, ovvero “L’Esca”). Quest’ultimo non è certamente il miglior film di Tavernier (basta infatti tornare indietro di poco per incontrare l’ottimo “Legge 627” del 1992), ma nei nostri lontani ricordi “L’Esca” rimane un piccolo manifesto generazionale di quell’epoca, il cui approccio estetico è inscindibile dalla sua chiara matrice europea.
La pellicola è ispirata a un fatto di cronaca realmente accaduto in Francia all’inizio degli 80s, dal quale fu tratto anche un libro dieci anni dopo: il regista cambia i nomi dei protagonisti e adatta le vicende al presente, trasportando questi tre giovani in un periodo storico ancora più influenzato dall’immagine, dal denaro e dall’arrivismo a tutti i costi.
Nathalie (una giovane e bella Marie Gillain) è l’esca del titolo: attraverso il suo fascino, il suo fidanzato Eric e l’amico Bruno la utilizzano come strumento per attirare l’attenzione dei ricchi professionisti della città (imprenditori, medici e avvocati). L’obiettivo di questi ragazzi è quello di rapinare queste persone, per poi impiegare i soldi raccolti fuggendo negli Stati Uniti alla ricerca di nuove esperienze lavorative. L’ingenuità di Nathalie e l’incapacità dei due giovani risulta tuttavia fatale, si susseguono infatti dei colpi dentro le abitazioni che non sempre vanno a buon fine (ci scappa pure il morto).
“L’Esca” fu vietato ai minori di diciotto anni in maniera piuttosto incomprensibile: i nudi della Gillain o qualche scena di violenza non giustificano affatto questa decisione, al di là di un duro e crudo malessere esistenziale ormai insito in questa gioventù a caccia di emozioni forti. Tavernier sceglie dunque la sobrietà, ponendosi letteralmente agli antipodi rispetto ai suoi colleghi americani (pensiamo a Gregg Araki e al contemporaneo “Doom Generation”), pur condividendone gli aspetti concettuali.
La regia sopraffina e le tre valide prove attoriali trascinano le sorti dell’opera al di sopra della media generale, anche se “L’Esca” è un film a tratti ridondante che all’epoca fu parzialmente sopravvalutato dalla critica specializzata. Un buon lungometraggio tuttavia lontano dall’eccellenza, non a caso oggi siamo davvero in pochi a ricordarcelo: la scomparsa di Tavernier deve comunque aiutarci a riconsiderare la sua carriera di lungo corso, la sua cultura e la sua competenza in materia, peculiarità umane e artistiche decisive per la crescita del cinema transalpino e non. “L’Esca” è solo un tassello di un percorso molto importante, un dramma dove la sensibilità del regista si è voluta soffermare, aggirando ogni spettacolarizzazione, su quel vuoto giovanile che ormai da tempo si poteva toccare con mano.

(Paolo Chemnitz)

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