A distanza di qualche mese dal successo della serie “The Handmaid’s Tale”, ecco un altro adattamento televisivo tratto da un romanzo della scrittrice canadese Margaret Atwood. La miniserie, composta da sei episodi, è diretta da Mary Harron (“American Psycho”) ed è andata in onda da settembre a ottobre sul canale canadese CBC e in seguito pubblicata su Netflix il 3 novembre.
Prendendo spunto da fatti realmente accaduti, “Alias Grace” mette in scena la vita della domestica Grace Marks (Sarah Gadon), un’immigrata irlandese approdata in Canada con la sua famiglia. Nel 1843, all’età di diciassette anni, la giovane donna fu condannata insieme allo stalliere James McDermott per l’omicidio del loro datore di lavoro Thomas Kinnear (Paul Gross) e della sua governante Nancy Montgomery (Anna Paquin), quest’ultima strangolata e fatta a pezzi in cantina. La Mark negò di aver compiuto tali crimini ma fu comunque condannata all’ergastolo, mentre lo stalliere fu impiccato.
Racchiuso da una fotografia eterea ed elegante, il racconto si divide in due fasce narrative nettamente distinte: presente e passato. Grace si trova presso un penitenziario nel quale le fa visita il medico psichiatra Simon Jordan (Edward Holcroft), intenzionato a scoprire se la ragazza sia davvero colpevole attraverso una serie di colloqui mirati a comprendere la sua complessa personalità. E’ proprio qui che hanno inizio gli affascinanti flashback sulla vita della giovane protagonista, curati nel dettaglio e toccanti per la crudeltà degli eventi narrati.
L’alternanza tra i colloqui e i flashback è costruita in maniera solida e sapiente, creando un ritmo narrativo sostenuto e avvolgendo completamente lo spettatore in questo notevole dramma psicologico ambientato in epoca vittoriana. L’ammaliante voce della protagonista guida il Dottor Jordan (e lo spettatore) nel suo oscuro passato, fatto di lutti, violenze familiari e abusi subiti durante il periodo trascorso nel manicomio criminale. Ma chi è davvero Grace Marks? L’elemento mystery su cui verte l’intera trama è proprio questo, poco importa sapere se la giovane irlandese sia innocente oppure no, ciò che interessa è sviscerare gli intenti della sua mente contorta che ci confonde assiduamente attraverso i suoi racconti, i quali talvolta sembrano mancare di veridicità, come se la donna raccontasse al Dottor Jordan solamente ciò che lui vuole sentirsi dire. Oppure risiedono in lei altre personalità? E’ quindi la ragazzina ingenua e sensibile che si affeziona agli animali oppure è il risultato di tutto ciò che le è stato fatto? (“La colpevolezza non deriva da quello che hai fatto, ma da quello che gli altri hanno fatto a te”).
Ciò che accade nell’episodio conclusivo è la risoluzione perfetta degli enigmi (senza mai cadere nel didascalico o nel banale ma anzi, lasciando spazio all’immaginazione o attraverso soluzioni appena suggerite ma simboliche) e se già nei precedenti episodi la messa in scena nei passaggi onirici crea un’intrigante brivido d’inquietudine, essa trova il culmine nella superlativa sequenza dell’ipnosi, grazie anche alla bravura dell’attrice che riesce a essere maligna e innocente allo stesso tempo.
Nel futuro distopico di “The Handmaid’s Tale” la misoginia dilaga e la donna è ridotta a oggetto riproduttivo. In “Alias Grace” quell’orrore è ugualmente riconoscibile e adattabile al contesto culturale dell’epoca in cui è ambientato il racconto, aprendo un discorso delicato e intelligente sulla figura femminile privata della propria libertà e dei propri diritti.
(Martina Ippoliti)