Sanctorum

di Joshua Gil (Messico/Repubblica Dominicana, 2019)

Nel lontano 2002, Joshua Gil mosse i primi passi nel cinema lavorando sul set di “Japón”, il capolavoro di Carlos Reygadas. Senza dubbio, l’influenza del celebre regista messicano ha plasmato non poco l’approccio estetico del suo conterraneo collega, nonostante Gil abbia esordito sul grande schermo soltanto nel 2015 (dirigendo il trascurabile “La Maldad”) Continua a leggere

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Luzifer

di Peter Brunner (Austria, 2021)

Wo ist der Teufel?”, ovvero “Dov’è il diavolo?”. Questa è la domanda centrale presente in “Luzifer”, il cui titolo non deve trarre in inganno: qui infatti non ci sono né sinistre presenze luciferine né tantomeno fluorescenti creature diaboliche che si muovono tra le mura domestiche (pensiamo al celebre “Post Tenebras Lux”). La risposta tuttavia è dietro l’angolo Continua a leggere

Seven Invisible Men

di Šarūnas Bartas (Lituania/Francia/Portogallo, 2005)

Di “Seven Invisible Men” (“Septyni Nematomi Zmones”) ne avevamo già parlato alcuni anni fa, inserendolo in una lista di titoli (tutt’altro che confortanti) provenienti dal blocco ex-sovietico. Ancora oggi, questo lungometraggio resta uno dei più significativi tra quelli realizzati da Šarūnas Bartas (regista lituano classe 1964, esponente di Continua a leggere

Ted K

di Tony Stone (Stati Uniti, 2021)

“Ted K” ci racconta gli ultimi anni di libertà di Theodore Kaczynski, matematico, criminale, terrorista ed ex professore universitario statunitense divenuto celebre con il soprannome di Unabomber: egli infatti, per un periodo di tempo molto dilatato (dal 1978 fino al 1995), aveva inviato una serie di pacchi postali esplosivi a numerose persone Continua a leggere

A Spell To Ward Off The Darkness

di Ben Rivers e Ben Russell (Francia/Estonia/Germania, 2013)

Il cinema sperimentale può concedersi qualsiasi libertà, pur rischiando di risultare criptico o peggio ancora pretestuoso. L’importante è trovare la chiave universale capace di aprire ogni serratura, quella scintilla per mezzo della quale ogni ombra può diventare luce: un incantesimo per scacciare l’oscurità, come ci suggerisce il titolo del film Continua a leggere

Tower. A Bright Day

di Jagoda Szelc (Polonia/Repubblica Ceca, 2017) 

Tra le nuove generazioni di registe polacche, il nome di Jagoda Szelc (classe 1984) è sicuramente tra i più interessanti. “Tower. A Bright Day” (“Wieza. Jasny Dzien”), il suo primo lungometraggio, non lascia infatti indifferenti, perché si tratta di un lavoro alquanto originale che rispecchia l’attuale situazione socio-politica che sta vivendo la Polonia Continua a leggere

Acasă, My Home

di Radu Ciorniciuc (Romania/Germania, 2020)

Questi giorni ci siamo tuffati a capofitto nella trentaduesima edizione del Trieste Film Festival, una prestigiosa e longeva rassegna con lo sguardo rivolto a est, verso quel cinema non sempre pubblicizzato a dovere dalle nostre parti: lungometraggi, corti e documentari provenienti dunque dai paesi balcanici, dagli stati del blocco ex sovietico e non Continua a leggere

La Ballata Di Narayama

la ballata di narayamadi Shôhei Imamura (Giappone, 1983)

Shôhei Imamura (1926-2006) non solo è stato uno dei più importanti registi della nouvelle vague giapponese, ma si è distinto anche per aver vinto ben due volte la Palma d’Oro a Cannes, nel 1983 con “La Ballata Di Narayama” e nel 1997 con “L’Anguilla”. L’interesse per l’indagine sociale è un tema che ritroviamo spesso nelle sue pellicole, una ricerca che travalica epoche e contesti come accade Continua a leggere

Frogs

frogsdi George McCowan (Stati Uniti, 1972)

Davanti a una frase come questa (“io credo ancora che l’uomo debba dominare la natura”), diventa logico attendersi una risposta adeguata. La natura dunque si incazza. Molti decenni prima delle battaglie portate avanti da Greta Thunberg, sugli schermi spopola il cosiddetto filone eco-vengeance, del quale la ragazzina svedese andrebbe davvero orgogliosa: un sottogenere legato al cinema horror in Continua a leggere

Midsommar

midsommardi Ari Aster (Stati Uniti, 2019)

Un anno dopo il fin troppo strombazzato “Hereditary” (2018), atterra nelle sale il secondo lungometraggio di Ari Aster, un banco di prova importante per testare le sue effettive capacità. Il giovane regista newyorkese (classe 1986) questa volta convince maggiormente, grazie a una pellicola più sobria e più quadrata rispetto ai voli pindarici messi in scena nella precedente. Un passo in avanti Continua a leggere