Martin

di George A. Romero (Stati Uniti, 1976)

Se consideriamo la carriera di George A. Romero al di là delle sue imprescindibili pellicole sugli zombi (la prima trilogia è un dono divino), c’è un piccolo film su cui è importante spendere due parole: ci riferiamo a “Martin”, un’opera che il regista americano ha sempre indicato come la sua preferita. Utilizziamo il titolo originale poiché questa breve retrospettiva si basa sul rewatch della versione statunitense, senza dubbio superiore all’edizione italiana (ovvero “Wampyr”, il cui montaggio rielaborato da Dario Argento ha fatto storcere il naso a tanti appassionati). Un altro aspetto fondamentale riguarda la colonna sonora, qui minimale e in perfetta sintonia con le atmosfere del film, al contrario della controparte italiana, nella quale sono stati impiegati alcuni pezzi dei Goblin (a dire il vero poco adatti per un contesto simile).
Mentre il giovane Martin viaggia in treno verso una triste e bigotta cittadina della Pennsylvania, conosciamo subito le sue strane tendenze: di notte, sulla carrozza, il ragazzo narcotizza una donna per poi berne il sangue dopo averle inciso i polsi con una lametta. Ad attenderlo in stazione c’è Cuda, un cugino molto più anziano di lui, il quale è convinto che egli sia un vampiro (“Nosferatu. Vampire! First I will save your soul, then I will destroy you”). Tuttavia, più conosciamo il protagonista, più ci rendiamo conto che egli è soprattutto un incompreso la cui esistenza è scandita dall’emarginazione e dalla solitudine.
Girato con un budget davvero misero, “Martin” è un lungometraggio che va vissuto come se fosse un documentario scarno e realistico sulla quotidianità di questi personaggi (a cui dobbiamo aggiungere Christina, un elemento chiave del film). Romero prende dunque le distanze dal filone gotico sui vampiri, utilizzando invece questa figura per fare (nuovamente) del cinema sociale: un messaggio forte e chiaro che ancora oggi viene adoperato in alcune pellicole di respiro internazionale, pensiamo soltanto al recente “Bones And All” (2022) di Luca Guadagnino (dove la figura del vampiro disadattato viene prontamente sostituita da quella della gioventù cannibale a spasso per la provincia americana).
Seppur penalizzato da una lentezza di fondo abbastanza marcata, “Martin” si rivela comunque meno estenuante rispetto al precedente “The Crazies” (1973), complice un mood morboso (intriso di tensione sessuale) che non perde un briciolo di intensità neppure nelle stranianti parentesi in bianco e nero. Per i più curiosi, ricordiamo che George A. Romero qui fa una timida apparizione nelle vesti di un prete, mentre Tom Savini si sdoppia interpretando Arthur e occupandosi degli effetti speciali (fu la sua prima collaborazione con il regista, in attesa del botto imminente col futuro “Zombi”). Lasciate perdere la confusione di “Wampyr”, perché solo l’originale americano può rendere giustizia al suo creatore: è un cinema tetro e alienato quello di “Martin”, uno sforzo che merita di non essere dimenticato.

(Paolo Chemnitz)

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