
di Shinya Tsukamoto (Giappone, 1999)
Dopo aver girato una serie di pellicole di culto, Shinya Tsukamoto rompe momentaneamente con il passato, realizzando un film che apre ufficialmente la seconda fase della sua carriera. Prendendo spunto da un breve racconto di Edogawa Rampo (“Sôseiji”), il regista giapponese intraprende un percorso estetico ugualmente cupo ma ben lontano dalla frenesia urbana a cui ci aveva meravigliosamente abituati nel corso dei 90s.
“Gemini” è ambientato durante gli ultimi anni del periodo Meiji, dunque all’inizio del Novecento: conosciamo immediatamente Yukio, un rispettato medico che conduce una vita apparentemente perfetta, nonostante il matrimonio con Rin (una donna di cui non sappiamo nulla per via delle sue costanti amnesie). I genitori di lui non approvano quell’unione, eppure sono proprio loro a nascondere un terribile segreto, poiché Yukio ha un gemello che è stato abbandonato alla nascita a causa di una malformazione fisica. Quest’ultimo, cresciuto nei bassifondi della città, torna per vendicarsi, sostituendosi al fratello protagonista (il confronto tra i due non è solo familiare, ma anche sociale).
Pur essendo considerato un prodotto minore nella filmografia di Shinya Tsukamoto, “Gemini” è comunque un’opera di indubbio valore, una pellicola supportata da una suggestiva fotografia e dalle splendide musiche del compianto Chu Ishikawa (la colonna sonora fu premiata a Sitges). La regia appare fin da subito più controllata e per nulla impetuosa, perché questo è un lento tuffo nel passato, quindi ben distante dalle dinamiche post-industriali di “Tetsuo” (1989) e via dicendo. Tali avvolgenti atmosfere vintage saranno vagamente citate nel celebre nonché controverso “Imprint” (2006) di Takashi Miike: non si tratta affatto di una coincidenza, poiché Miike nel 2000 aveva curato il making of di “Gemini” (un documentario di neppure venti minuti).
Se proprio vogliamo trovare il vero punto debole del film, dobbiamo ricercarlo nel soggetto, piuttosto abusato e tutt’altro che originale. La tematica del doppio sarà comunque ripresa da Tsukamoto nel più intenso e viscerale “Kotoko” (2011), uno dei suoi migliori prodotti realizzati di recente. “Gemini” resta però una testimonianza importante: è infatti con questo lavoro che il regista giapponese dimostra di saper cambiare marcia e di possedere quella versatilità poi decisiva per il futuro della sua carriera. Uno snodo da non sottovalutare.

(Paolo Chemnitz)
