Earwig

di Lucile Hadžihalilović (Gran Bretagna/Francia/Belgio, 2021)

La formula per la giusta alchimia in una coppia? Qualcuno dice che bisogna essere simili negli interessi ma complementari nel carattere. Anche se le vicende private di Lucile Hadžihalilović (lei francese di origini bosniache) e di suo marito Gaspar Noé non le conosciamo, sappiamo comunque che entrambi amano il cinema in maniera viscerale. Proprio all’interno di questa passione condivisa, c’è un fattore estetico assolutamente complementare tra i due: se infatti molti film di Noé ci bombardano di luci (in quello che possiamo definire un meraviglioso valzer epilettico), quelli della Hadžihalilović rappresentano l’esatto opposto (il suo è un lavoro di totale sottrazione ai confini con l’ermetismo più estremo).
Questo “Earwig”, terzo lungometraggio per la regista transalpina (nonché primo recitato in inglese), alza ancora più in alto l’asticella: il precedente “Évolution” (2015), seppur minimale e non sempre lucido nel suo percorso concettuale, funzionava grazie a un minutaggio ridotto, al contrario dell’opera in esame, tanto affascinante a livello formale quanto estenuante sul piano narrativo. I dialoghi sono ridotti ai minimi termini e la trama è praticamente nulla, anche perché molto viene lasciato all’immaginazione dello spettatore.
La protagonista di questa fiaba nera è Mia, una ragazzina di dieci anni costretta a vivere segregata dentro un cupo appartamento: c’è un custode accanto a lei (Albert), il quale ogni giorno le sostituisce una singolare protesi dentale costruita con il ghiaccio. Tuttavia, una telefonata spezza la routine quotidiana dei due, poiché Mia adesso si deve preparare per uscire nel mondo esterno. Gli indizi sono pochi, ma una blanda ricostruzione del passato di Albert ci permette di comprendere (nel possibile) il suo ruolo negli eventi (anche in relazione ad altri personaggi che si aggiungono alle vicende). “Earwig” però, più che raccontare, accenna.
In una recente intervista rilasciata per Cineuropa, Lucile Hadžihalilović ha affermato che “questo film è nella testa di un uomo che si è perso. Egli ha briciole di ricordi, incubi e allucinazioni e non conosce la differenza tra loro”. Il pubblico deve dunque entrare nella mente di Albert, altrimenti non c’è via di scampo. C’è da dire che l’esperienza sensoriale funziona (il sonoro è debordante), così come la fotografia (si gioca molto sui chiaroscuri), però non bastano tali prerogative per strappare la sufficienza generale: due ore risultano davvero eccessive per la nebulosa quantità di carne messa sul fuoco, anche se ipotizziamo che l’omonimo romanzo di Brian Catling (da cui la pellicola prende ispirazione) sia ancora più complesso e stratificato.
Sia chiaro, “Earwig” non è un brutto film, ma si rivela un’occasione mancata per effettuare il fatidico salto di qualità. Le ambizioni della Hadžihalilović si infrangono così contro un muro difficilmente valicabile: dopotutto, non sempre il minimalismo d’autore è sinonimo di grande cinema.

(Paolo Chemnitz)

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