Matar A Jesús

di Laura Mora Ortega (Colombia/Argentina, 2017)

Medellín è una metropoli sterminata che si arrampica lungo una valle posta a millecinquecento metri sopra il livello del mare. Purtroppo, nominare questa città colombiana significa spesso associarla al famigerato ex cartello di Pablo Escobar (le prime due stagioni di “Narcos” parlano chiaro) oppure ad altre vicende (reali o fittizie) legate al mondo della criminalità (torna subito in mente un film come “La Vergine Dei Sicari” di Barbet Schroeder).
Con “Matar a Jesús” (“Killing Jesus”), questo spietato sottobosco urbano ci viene raccontato da un punto di vista prettamente femminile, quello della regista Laura Mora Ortega e quello di una carismatica protagonista interpretata da Natasha Jaramillo: lei è Paula, una studentessa di buona famiglia a cui viene ammazzato il papà (uno stimato professore) davanti ai suoi occhi. La polizia brancola nel buio, anche perché queste brutali esecuzioni sono all’ordine del giorno, eppure Paula ricorda di aver visto bene il viso dell’assassino. Da tale presupposto prende vita una pellicola più orientata sul dramma personale che sul thriller tout court (nonostante la tematica della giustizia privata sia comunque dietro l’angolo), non a caso “Matar a Jesús” tende a focalizzarsi sul rapporto sempre più controverso tra la ragazza e il presunto killer di suo padre, un giovane balordo di nome Jesús da lei riconosciuto durante una festa.
Ispirandosi a un terribile trauma del passato (il papà della regista fu ucciso in un agguato nella città colombiana), Laura Mora Ortega incolla la macchina da presa sui volti perennemente turbati e preoccupati dei vari personaggi: è un film intenso e viscerale “Matar a Jesús”, un lavoro nel quale le inquadrature strette risultano nervose e claustrofobiche, proprio come il mood che respiriamo per circa novanta minuti. Accanto all’analisi psicologica sulle reazioni (anche impulsive) di Paula, la regista ci offre uno spaccato altamente duro e doloroso sulla quotidianità di Medellín, un luogo dove ci si diverte vivendo alla giornata (la musica, le gite in motocicletta, il derby calcistico tra Nacional e Indipendiente), con lo spettro della morte sempre in agguato.
La scena conclusiva riassume al meglio la potenza concettuale dell’opera, ovvero il rifiuto di doversi adeguare per forza alle leggi di una giungla dominata dalla violenza e dalla corruzione. La figura di Paula ribalta dunque quell’immaginario da revenge movie legato alle vendette più tragiche ed estreme: qui non si chiude nessun cerchio, perché la rabbia resta intatta fino all’ultimo fotogramma. Di conseguenza, il realismo sociale di “Matar a Jesús” si rivela molto più amaro rispetto alle previsioni, poiché riduce al lumicino le speranze per un cambiamento.

(Paolo Chemnitz)

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