
di Alex Garland (Gran Bretagna, 2022)
È innegabile che durante gli ultimi anni, il cinema horror d’autore sia diventato il fiore all’occhiello di un intero genere, un movimento altrimenti relegato al più banale e stereotipato prodotto da multisala (ovviamente americano) o alle più sotterranee pellicole low budget (quelle per pochi intimi). Dopo le notevoli esperienze maturate in passato (“Ex Machina” e “Annientamento”), pure Alex Garland è approdato verso i succitati territori, garantendosi già dalle prime proiezioni un discreto stuolo di ammiratori ma anche di haters. Tuttavia, almeno per una volta, la verità forse sta nel mezzo.
La trama di “Men” è molto semplice: dopo un doloroso divorzio, una donna (Jessie Buckley interpreta Harper) decide di prendersi un periodo di pausa dalla città. La protagonista si ritira così in una villa immersa nel verde, a due passi da un villaggio abitato da poche anime. Questo soggiorno si rivela però un vero incubo per Harper, costretta a rapportarsi prima con delle figure maschili alquanto bizzarre e poi con qualcosa di assolutamente mostruoso. L’ombra del marito (morto suicida) è ancora lì, nella sua testa.
Alex Garland lavora prima di tutto sul simbolismo (dalla mela del peccato originale al significativo passaggio nel tunnel), facendo collimare le suggestioni della donna con i suoi sensi di colpa sempre più travolgenti. “Men” si trasforma così in un dramma dell’immaginazione, aprendosi comunque verso riflessioni tutt’altro che immateriali (la sensibilità di Harper è tangibile e si acuisce tragicamente attraverso il contatto con gli individui che si aggirano attorno a lei, tutti esempi concreti di mascolinità deviata e perversa). Da qui emerge una deriva femminista più o meno credibile, nonostante il regista tenda a premere eccessivamente sull’acceleratore nella parte conclusiva, quando “Men” prende le sembianze di un horror estremo fin troppo esagerato per ciò che vuole realmente rappresentare. Gli occhi ringraziano (alcune sequenze sono davvero malsane), la mente un po’ meno (concettualmente parlando, il film tende a perdere colpi in favore di un fantasioso nonché gratuito spettacolo weirdo).
Se un certo vuoto strutturale di matrice arty è innegabile e fa parte del gioco, tali prerogative diventano quasi funzionali al lavoro del regista: la messa in scena è raffinata ed elegante, ma c’è di più, perché Alex Garland sa costruire in maniera magistrale la tensione (alcuni passaggi mettono i brividi), mescolando con bravura l’elemento perturbante/simbolico (quello umano) con quello (finto-rassicurante) incarnato dalla natura. A proposito di natura, c’è da dire che il cinema britannico ha sempre avuto un rapporto privilegiato con le zone rurali più incontaminate: un legame esoterico tra luoghi e persone capace di influire drasticamente sulla psiche degli individui (i germi del folk-horror si sono propagati così). “Men” abbozza tali sensazioni (le antiche sculture Sheela Na Gig oppure la figura del Green Man), mettendole però da parte davanti al delirio psicologico tout court, una piaga mentale plasmata per l’occasione attraverso un approccio puramente autoriale. Al termine della visione, non tutto quadra come dovrebbe, ma il fascino ambiguo del film sopperisce più di una volta alla sua flebile consistenza generale.

(Paolo Chemnitz)
