
di Francesco Barilli (Italia/Spagna, 1978)
La popolarità di Leonora Fani (classe 1954) crebbe a dismisura durante la seconda metà degli anni settanta, quando l’attrice di origini trevigiane interpretò alcuni ruoli alquanto pruriginosi: noi ce la ricordiamo soprattutto nel controverso “Bestialità” (1976), in “Nenè” (1977) di Salvatore Samperi e poi ancora in questo “Pensione Paura”, un film diretto dallo stesso regista del più riuscito (ed elegante) “Il Profumo Della Signora In Nero” (1974).
L’idea di Francesco Barilli non è affatto banale, perché il giallo-thriller di marca tipicamente italiana qui viene ibridato con il dramma della guerra (il secondo conflitto mondiale). Con il marito impegnato sul fronte, spetta infatti a Marta e a sua figlia Rosa (la Fani) gestire la quotidianità di una pensione fatiscente in riva a un lago (l’opera è stata girata nei dintorni di Bracciano). La clientela non è affatto di prim’ordine, poiché davanti alla telecamera si avvicendano prostitute, fuggiaschi e persino qualche viscido personaggio sessualmente interessato alla giovane protagonista (Luc Merenda veste i panni di Rodolfo). Quando Marta muore in seguito a un tragico incidente sulle scale, Rosa si ritrova spaesata in mezzo a questi ambigui e pericolosi soggetti: per lei non resta dunque che affidarsi alla follia e alla violenza, in attesa che ritorni suo padre dalla guerra (un’utopia travestita da speranza).
Fino all’infame e perversa scena dello stupro, “Pensione Paura” si rivela un film piuttosto innocuo, nonostante una buona fotografia e un’atmosfera malaticcia tutt’altro che consolante. È un peccato che la storia ci metta così tanto a carburare, visto che gli ultimi trenta minuti sono invece molto interessanti non solo per i vari risvolti horror, ma anche per l’esplosione definitiva delle derive più morbose e decadenti.
Se questo lungometraggio non è mai stato elogiato ai livelli del suo celebre predecessore, anche la censura ha contribuito in negativo: Francesco Barilli ha infatti ricordato più volte i diversi tagli e divieti che ostacolarono la pellicola alla sua uscita (il film fu vietato nelle sale ai minori di diciotto anni e nei successivi passaggi televisivi, alcune sequenze furono segate senza pietà). A distanza di tanto tempo, possiamo dunque affermare che “Pensione Paura” non è assolutamente un prodotto da bistrattare a prescindere, al di là della sua inesorabile e implacabile lentezza (da non confondere con il mood lugubre e claustrofobico che si abbatte su questo squallido edificio adibito a pensione). Gli appassionati di cinema di genere italiano lo sanno bene, perché se da un lato l’insufficienza generale è un dato di fatto, c’è da dire che qualcosa da salvare c’è.

(Paolo Chemnitz)
