
di Peter Weir (Australia, 1977)
Peter Weir realizza “L’Ultima Onda” (“The Last Wave”) a due anni di distanza dal mystery movie per eccellenza, “Picnic Ad Hanging Rock” (1975). Se quest’ultimo è indubbiamente il primo grande capolavoro del regista di Sydney, la pellicola in esame si può tuttavia annoverare tra le sue opere più sottovalutate. C’è un filo invisibile che lega questi due film, un leitmotiv pregno di risvolti occulti e sinistri: stavolta però non è l’aspro territorio australiano a tenerci incollati allo schermo, perché Weir si focalizza sugli autoctoni che un tempo popolavano indisturbati questo grande stato oceanico, trasformandoli in messaggeri apocalittici.
David Burton (Richard Chamberlain) è un avvocato incaricato di difendere cinque aborigeni accusati dell’omicidio di un uomo. Sembra che dietro tale gesto ci sia un oscuro rituale: nel frattempo, una serie di insoliti eventi (temporali improvvisi e molto altro) si abbattono sulla città, mentre il protagonista comincia a essere testimone di terribili premonizioni. Il mondo è sull’orlo del collasso.
Rispetto alla succitata opera precedente, Peter Weir sposta l’azione dal passato al presente, senza comunque arretrare di un millimetro rispetto alla sua idea di cinema: non a caso, anche “L’Ultima Onda” si rivela un prodotto incentrato sull’ignoto e su una costante metafisica di cui non conosciamo apparentemente nulla. Le atmosfere lasciano davvero senza fiato, specialmente quando il regista affida le immagini nelle sapienti mani della musica (l’inquietante suono del didgeridoo viene alternato ad alcuni gelidi tappeti ambient). Inoltre, il meglio arriva nelle suggestive sequenze conclusive, quando “L’Ultima Onda” trova rifugio tra i fotogrammi più ipnotici.
Questa è una pellicola catastrofica in cui convivono diverse sfumature: senza dubbio c’è un pizzico di cinema horror, ma Peter Weir punta soprattutto sugli aspetti fanta-drammatici della storia, facendo collimare la crisi della contemporaneità (oltre alla difficile convivenza tra bianchi e aborigeni) con un tragico evento irreversibile.
“Aborigines believe in two forms of time. Two parallel streams of activity. One is the daily objective activity to which you and I are confined. And the other is an infinite spiritual cycle called the dreamtime. And more real than reality itself. Whatever happens in the dreamtime establishes the values, symbols and laws of aboriginal society. Some people of unusual spiritual powers have contact with the dreamtime”). Attraverso queste fondamentali parole, possiamo tentare di arginare la complessità di un’opera di non facile fruizione, anche per via di alcuni passaggi abbastanza confusi e farraginosi. Tuttavia, una volta entrati all’interno di questo labirinto, perdersi senza farsi troppe domande diventa l’unica possibilità per poter cogliere l’angoscia di ogni singolo profetico indizio. Il cinema più visionario e tribale passa obbligatoriamente da qui.

(Paolo Chemnitz)
