The Devil’s Trap

di František Vláčil (Cecoslovacchia, 1962)

František Vláčil (1924-1999) è stato un mostro sacro del cinema ceco(slovacco), soprattutto alla luce del suo capolavoro “Marketa Lazarová” (1967), considerato da alcuni critici come il miglior film mai realizzato da quelle parti. Oggi però facciamo un piccolo passo indietro, in modo tale da conoscere un altro dramma storico non meno affascinante, “Dáblova Past” (“The Devil’s Trap”), un prodotto realizzato poco prima che in patria prendesse piede quella celebre corrente denominata nová vlna (ovvero la new wave cecoslovacca). Vláčil, pur essendo associato a tale movimento, non fu mai uno dei suoi esponenti ufficiali: egli era più grande di una decina di anni rispetto ai vari Miloš Forman, Jaromil Jireš o Juraj Herz, dunque si era formato ed era cresciuto in maniera differente in confronto a loro.
Il tema centrale di “Dáblova Past” verte sullo scontro tra fanatismo religioso e sapienza popolare. La storia è ambientata nel sedicesimo secolo, in un villaggio rurale dove un prete (Probus) è stato inviato per indagare su un mugnaio (Spálený) sospettato di essere in combutta con il demonio. In realtà, durante un saccheggio, la famiglia di quest’ultimo era riuscita a sopravvivere miracolosamente a un terribile incendio, un evento che sommato ad altri aveva contribuito ad accrescere l’invidia di molte persone nei confronti del protagonista. Probus cerca allora di scatenare una rivolta per mettere fine al caso Spálený.
Nel corso dei 60s, non era difficile imbattersi in pellicole cecoslovacche incentrate attorno a tali argomenti (religione, superstizione e folklore contadino), pensiamo a “Dragon’s Return” (1968) oppure al magnifico “Witchhammer” (1970). Questo sguardo antropologico è ben presente anche tra i fotogrammi di “Dáblova Past”, un film nel quale l’intelligenza del singolo individuo viene completamente demonizzata dal pensiero oscurantista delle istituzioni (religiose e non). La scienza contro il buio. All’interno di tale discorso (e con un occhio rivolto al cinema di Bergman), František Vláčil fa le prove generali per le sue opere future, ammantando di complessità una narrazione non sempre limpida e scorrevole: questo tuttavia è sempre stato il suo marchio di riconoscimento, un modus operandi ricco di sfumature e di intriganti soluzioni estetiche (la sua regia raggiungerà lo stato di grazia nell’ottimo “La Valle Delle Api”, film del 1968).
Infine, c’è da segnalare una colonna sonora di grande effetto, almeno per l’epoca, un altro punto a favore per un lungometraggio non imprescindibile ma comunque importante, non solo per la carriera stessa del regista. Ottantacinque minuti che lasciano il segno.

(Paolo Chemnitz)

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