
di Roland Klick (Germania Ovest, 1970)
Pur non essendo mai stato un nome di punta del Nuovo Cinema Tedesco (Wenders, Herzog e Fassbinder appartengono a un altro mondo), Roland Klick si è preso qualche piccola soddisfazione con il trascorrere del tempo, quando la critica ha cominciato a rivalutare alcune sue pellicole all’epoca bistrattate: “Deadlock” fu persino sedotto e abbandonato, poiché della sua presenza al Festival di Cannes nel 1970 restò soltanto l’annuncio (l’opera fu sostituita con un altro prodotto di provenienza teutonica).
Non a caso, “Deadlock” guardava al di là dei propri confini, inglobando un linguaggio cinematografico non perfettamente in linea con i dettami del succitato Neuer Deutscher Film. Questo è infatti uno spaghetti western a tutti gli effetti, senza dubbio influenzato dalle pellicole di Sergio Leone (“Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo”) ma comunque capace di mostrare una sua peculiare personalità, anche solo per il fatto di essere stato girato in una location tanto limitata quanto determinante per l’economia dell’opera (le riprese furono effettuate in Israele).
Un uomo è appena svenuto nel deserto: si tratta di Kid (Marquard Bohm), un tizio di cui non sappiamo nulla, nonostante sia abbastanza semplice capire cosa abbia combinato poco tempo prima (egli ha con sé una mitragliatrice e una valigia piena zeppa di soldi). Su quel denaro mette gli occhi il rude Charles Dump (Mario Adorf non ha bisogno di presentazioni), un individuo solitario a guardia di un vecchio impianto minerario. È proprio nei pressi della sua casupola semi-diroccata che si svolgono le vicende del film, perché oltre a Charles e a Kid (nel frattempo raccolto e trasportato tra quelle mura decrepite), presto si affaccia sulla scena un terzo personaggio, tale Sunshine (Anthony Dawson). L’obiettivo è il malloppo, con le dinamiche di potere del terzetto destinate inesorabilmente a cambiare prospettiva.
“Deadlock” (letteralmente: punto morto) è un titolo che calza a pennello, anche perché non sembra esserci la possibilità di fuggire da questa gabbia di sassi e di puro squallore: un panorama desolante capace di contaminare i personaggi stessi, incluse le due figure femminili la cui presenza è tutt’altro che rasserenante (la giovane sordomuta Jessy ha un appeal quasi spettrale). Giocando dunque sull’intenso rapporto tra questi individui, Roland Klick costruisce una storia decisamente sudicia, non senza qualche squarcio di carattere visionario (merito della colonna sonora dei Can, in quel periodo veri mattatori della scena krautrock). La narrazione cuoce a fuoco lento, a tratti sembra non voler mai decollare, ma la scelta del regista è proprio quella di seminare dubbi e continue ambiguità lungo il percorso, lasciando allo spettatore il compito di schierarsi da una parte o dall’altra. Oppure di non schierarsi con nessuno, in questa arida distesa di avidità e di nichilismo.

(Paolo Chemnitz)

Visto di recente e mi ha colpito per la fotografia. Non so però dire se mi è piaciuto o meno, lo guarderò di nuovo.
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