
di Hlynur Pálmason (Islanda/Danimarca, 2017)
Non è la prima volta che il cinema islandese ci parla di disadattati: era già accaduto con alcuni film diretti da Dagur Kári, dall’ottimo “Nói Albinói” (2003) fino al più recente “Virgin Mountain” (2015), anche se gli esempi non si fermano affatto qui. Oggi invece è il turno di Hlynur Pálmason (regista e sceneggiatore), il cui primo lungometraggio nasce in cooperazione con la Danimarca.
“Vinterbrødre” (“Winter Brothers”) è stato girato proprio in terra danese, dove per giunta è presente la più grande miniera di calcare del mondo. Da queste parti lavora il timido e minuto Emil (Elliott Crosset Hove è stato premiato a Locarno come migliore attore della rassegna), un uomo emarginato dai suoi colleghi nonostante egli faccia di tutto per essere accettato da questa piccola comunità (il protagonista offre agli altri un forte liquore preparato rubando di volta in volta gli ingredienti nella fabbrica). Per il ragazzo, gli eventi presto cominciano a prendere una brutta piega: se il rapporto col fratello maggiore Johan si deteriora, c’è da mettere in conto un sentimento non corrisposto (Emil è segretamente innamorato di Anna), oltre all’accusa di aver fatto ammalare un operaio per colpa del suo superalcolico.
Il bianco è il colore dominante, perché il calcare si confonde spesso con la neve che circonda l’esistenza di queste persone. Tale prerogativa mostra i suoi lati più alienanti dal momento in cui Hlynur Pálmason punta quasi tutto sul sonoro e sulle atmosfere industriali di quel luogo (a volte, il rumore dei macchinari sembra voler sottolineare la mancanza di comunicazione tra Emil e i suoi compagni). Infine, c’è proprio lui, questo strambo e solitario individuo alla disperata ricerca di attenzione, di affetto e di amore.
A dispetto del titolo, “Vinterbrødre” non approfondisce più di tanto il conflitto tra i due fratelli, penalizzando in parte una narrazione a tratti incompiuta, dove alla voglia di osare non corrisponde una materia cinematografica altrettanto coraggiosa. In effetti, c’è più Islanda che Danimarca nel linguaggio estetico della pellicola, un grezzo approccio non privo di angoli da smussare. Tuttavia, è importante dare fiducia al lavoro di Hlynur Pálmason, perché si tratta comunque di un esordio che raggiunge in scioltezza la piena sufficienza. I margini di miglioramento sono facilmente a portata di mano.

(Paolo Chemnitz)
