
di Ulli Lommel (Germania Ovest, 1973)
Il cinema tedesco non ha mai trascurato i serial killer di casa propria: una lunga storia che ha avuto inizio con il capolavoro “M – Eine Stadt Sucht Einen Mörder” (1931) per poi concludersi, almeno per il momento, con il recente “Der Goldene Handschuh” (2019) di Fatih Akin. Un viaggio cominciato da Düsseldorf (il pervertito Peter Kürten) e successivamente atterrato tra le bettole degradate di Amburgo, con il lercio psicopatico Fritz Honka. In mezzo a tutto questo, bisogna fare anche un giretto dalle parti di Hannover, per conoscere la figura di Fritz Haarmann (tra il 1919 e il 1924, egli fu autore di almeno ventiquattro omicidi).
Questo personaggio, soprannominato il licantropo di Hannover, abbordava dei ragazzini di strada nei pressi della stazione, per poi condurli nel suo appartamento ed ucciderli con un morso alla gola, in un atto di frenesia sessuale. Durante il processo, si sparse addirittura la voce (mai confermata) che l’uomo avesse venduto la carne delle sue vittime al mercato nero, spacciandola per maiale. “Tenderness Of The Wolves” (“Die Zärtlichkeit Der Wölfe”) ci parla proprio di lui, della sua quotidianità e del suo losco e tetro appartamento, spostando tuttavia le vicende al termine della seconda guerra mondiale.
Nel caso in esame, il sodalizio tra Ulli Lommel e Rainer Werner Fassbinder funziona a ruoli invertiti: Lommel dirige, mentre Fassbinder produce e recita nei panni di Wittowski. Ma la vera star della pellicola è un cadaverico Kurt Raab, qui perfetto nelle vesti del pedofilo Haarmann. Il film si focalizza sulle atmosfere torbide in cui sono avvolti questi personaggi, raffreddandole a dovere grazie a una messa in scena molto severa e teatrale, in pieno stile fassbinderiano. Ne deriva un’opera fosca e decadente, persino erede di un certo cinema espressionista (non mancano i riferimenti al succitato “M” di Fritz Lang), dunque ben lontana dalle derive horror più ferali e sanguinose.
Se “Tenderness Of The Wolves” riesce a mantenersi vivo nel corso dei suoi ottanta minuti, è solo per via della presenza di questo psicopatico tutt’altro che insospettabile (eppure considerato alla stregua di un uomo normale, anche dal vicinato). Il resto procede infatti senza lasciare ricordi indelebili, alternando un iter narrativo da giallo-poliziesco ad alcuni dialoghi fin troppo verbosi. Ciononostante, se ci si avvicina alla pellicola con la giusta consapevolezza, tali inesorabili imperfezioni possono trasformarsi in un diversivo interessante per gli appassionati della materia: cinema e serial killer tedeschi, un’accoppiata sempre stimolante sotto ogni prospettiva.

(Paolo Chemnitz)
