
di Šarūnas Bartas (Lituania/Francia/Portogallo, 2005)
Di “Seven Invisible Men” (“Septyni Nematomi Zmones”) ne avevamo già parlato alcuni anni fa, inserendolo in una lista di titoli (tutt’altro che confortanti) provenienti dal blocco ex-sovietico. Ancora oggi, questo lungometraggio resta uno dei più significativi tra quelli realizzati da Šarūnas Bartas (regista lituano classe 1964, esponente di spicco del cinema baltico fin dagli albori dei 90s). Nei suoi film, la narrazione non segue affatto uno schema predefinito, perché è lo spettatore che deve essere in grado di crearsi un filo logico attraverso le immagini: un approccio passivo, immobile e apatico, come la vita stessa dell’essere umano, condannato a ripetere le medesime azioni giorno dopo giorno.
Inizialmente, “Seven Invisible Men” assume le sembianze di un road movie: i protagonisti sono infatti quattro personaggi in fuga verso un luogo non definito a bordo di una Mercedes rubata. Quattro individui (perdenti, emarginati e criminali) di cui non sappiamo nulla. Il viaggio tuttavia si conclude in una casupola fatiscente persa nelle campagne della Crimea, una fattoria dove incontriamo altre figure non meno controverse. Si tratta di gente senza futuro e senza risposte (ogni domanda che viene posta da qualcuno trova come replica un “non lo so”), mentre là attorno un sole perennemente basso e vicino al tramonto dipinge di malinconia questi volti spesso ripresi in primo piano.
Il linguaggio estetico di Šarūnas Bartas è facilmente riconoscibile: gli immancabili piani sequenza e l’utilizzo del campo lungo sono accompagnati da un sonoro piuttosto inquietante, un’anima oscura che si muove tra i silenzi e i rumori della natura (la costante presenza degli animali) in perfetta sintonia con quello spazio rurale dai contorni angoscianti, un luogo sinistro che sembra voler accompagnare ogni essere umano verso l’autodistruzione. L’ultima parte del film suggella tali sensazioni, con il gruppo ormai in preda ai fumi dell’alcol in una sorta di festa notturna dalle sfumature persino antropologiche (i balli, i canti e le preghiere si fondono con la miseria di questi individui, in attesa dell’epilogo più amaro).
Gli amanti del cinema d’autore più selvaggio e annichilente non possono tirarsi indietro, dopotutto Šarūnas Bartas mantiene sempre alta la sua coerenza, lavorando per sottrazione fino ai limiti dell’incomprensibile. “Seven Invisible Men” è un lavoro incredibilmente affascinante proprio perché si rivela criptico all’inverosimile, offrendoci una sola e unica verità: come in un trattato di filosofia, l’uomo altro non è che un essere abbandonato da dio, il cui destino procede in maniera casuale (praticamente egli è una bestia allo stato brado).
Queste due ore si dimostrano dunque tanto estenuanti quanto meravigliosamente stranianti, in un film capace di sospendere il tempo e il respiro di chiunque si trovi seduto dall’altra parte dello schermo. “Seven Invisible Men” è un fruscìo che soffoca, mentre quel bagliore rossastro sparisce lentamente all’orizzonte, come una scintilla che si perde nel vuoto.

(Paolo Chemnitz)
