Texas Chainsaw Massacre

di David Blue Garcia (Stati Uniti, 2022)

Realizzare un sequel diretto è una grande paraculata. Significa bypassare tutto quello che è stato fatto nei decenni precedenti, prendendosi praticamente il merito (ma anche la responsabilità) di ripartire dal capolavoro originario, quello che ha scritto la storia del genere: è accaduto di recente con “Halloween” (2018) di David Gordon Green e succede ancora oggi con questo “Texas Chainsaw Massacre”, da poco disponibile su Netflix. Produce Fede Alvarez (suo anche il soggetto), dirige lo sconosciuto David Blue Garcia.
Il salto temporale è dunque di quasi cinquant’anni: conosciamo immediatamente i quattro protagonisti, un gruppetto di giovani in viaggio verso una località remota del Texas. Il loro spirito imprenditoriale vorrebbe trasformare il villaggio semi-abbandonato di Harlow in un’area turistica e alla moda, anche se qualcuno non sembra per nulla d’accordo con il piano di questi intraprendenti ragazzi. La trama praticamente si esaurisce qui, perché una volta sul posto, l’unica sorpresa è rappresentata dal personaggio decisamente cazzuto di Sally, ovvero la final girl del primo inimitabile “Non Aprite Quella Porta” (1974). Olwen Fouéré interpreta questa figura ormai attempata, prendendo il posto di Marilyn Burns (scomparsa nel 2014). Infine, c’è faccia di cuoio, anch’egli piuttosto convincente sia nel portamento un po’ goffo che nella maschera (in questo caso, il robusto Mark Burnham sostituisce l’islandese Gunnar Hansen, morto nel 2015).
“Texas Chainsaw Massacre”, per nostra fortuna, dura meno di ottanta minuti. Dopotutto, senza uno straccio di sceneggiatura, l’unica cosa possibile da fare era quella di affidarsi al sangue, a una serie di scene splatter belle truculente e senza dubbio ben realizzate (gli effetti old-school non tradiscono mai). Tolta però questa divertente prerogativa, il vuoto cosmico è in agguato. La storia allora cerca di contestualizzare ogni azione nella modernità (le immagini all’interno del bus, con tanto di motosega in diretta social), facendo tuttavia un torto al significato originario del film e all’essenza stessa del personaggio di Leatherface, qui praticamente trasformato in un villain come tanti, neanche stessimo a parlare di qualche mediocre slasherino contemporaneo.
Anche dal punto di vista delle atmosfere, non ci siamo proprio: la scelta di girare in Bulgaria (sulle orme del più credibile “Leatherface” di Bustillo e Maury) può pure passare per buona, ma senza quel marciume tipicamente texano (quello capace di trasmettere disagio a palate) c’è davvero poco da stare allegri, considerando il piattume psicologico dei vari protagonisti e l’ormai solita patina rassicurante tipicamente Netflix. Va bene quindi la violenza estrema da horror sadico e infame, ma senza una goccia di rancido sudore, tutto diventa automatizzato, gratuito e terribilmente insipido.
Le nostre aspettative erano pari a zero, perciò non possiamo neppure parlare di delusione: in fondo, sappiamo bene cosa significa sfruttare il marchio e l’iconografia di un vecchio capolavoro, spremendo ogni risorsa fino all’impossibile. “Texas Chainsaw Massacre” è il risultato di questo modus operandi, praticamente il concertino di una cover band dopo che per una vita ti sei goduto il meglio con la pellicola del 1974. Il cinema horror, messo così, diventa quasi imbarazzante.

(Paolo Chemnitz)

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