Irezumi

di Yasuzô Masumura (Giappone, 1966)

In giapponese, irezumi significa letteralmente inserire inchiostro nero. È il tatuaggio per eccellenza del Sol Levante (artisticamente parlando, è caratterizzato da colori molto accesi e da ampi disegni), un segno distintivo spesso utilizzato dagli appartenenti alla Yakuza (la famigerata mafia nipponica). Nel 1966, un talentuoso regista del calibro di Yasuzô Masumura, dirige un dramma saldamente ancorato a questa tradizione: l’ispirazione arriva da un racconto di Junichirō Tanizaki (1886-1965), scrittore molto noto in patria (e non solo) per i suoi romanzi incentrati sul tema della bellezza femminile legata a ossessioni erotiche distruttive.
Ayako Wakao interpreta Otsuya, una bella donna in fuga con il promesso sposo Shinsuke, il timido assistente che lavora nella sua ricca dimora. La coppia trova rifugio presso una vecchia conoscenza che promette loro di aiutarli, affinché il padre di lei acconsenta alle nozze. I due però cadono in trappola: Otsuya viene rapita e costretta a servire come una geisha, oltre a essere segnata a vita con un tatuaggio sulla schiena raffigurante un ragno con una testa umana.
Yasuzô Masumura, in attesa di raggiungere la definitiva consacrazione con alcuni dei suoi titoli più ammirati (dal contemporaneo “Nuda Per Un Pugno Di Eroi” del 1966 all’imprescindibile “Blind Beast” del 1969), qui realizza un lungometraggio pregno di violenza ed erotismo, alternando alle immancabili derive misogine un sentimento di vendetta simboleggiato proprio dal ragno tatuato sul corpo di Otsuya, un animale capace (come la donna) di catturare e uccidere le sue prede. Le atmosfere del film sono molto suggestive, soprattutto durante le scene in notturna, per un mood come al solito avvolgente e affascinante (merito anche dell’ottima sceneggiatura curata da Kaneto Shindō, reduce due anni prima dal capolavoro assoluto “Onibaba”).
Un tragico quanto inevitabile epilogo suggella a dovere l’ennesimo prodotto nipponico di spessore proveniente dai magnifici 60s, un decennio a dir poco indimenticabile per il cinema giapponese. Nel caso specifico, “Irezumi” mette in mostra anche una certa crudezza senza censure, sbattendoci in faccia un’arte del tatuaggio ben lontana da quella odierna che noi tutti conosciamo (la sofferenza di Otsuya la proviamo davvero sulla nostra pelle). Un film che non si dimentica.

(Paolo Chemnitz)

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