Confessions

di Tetsuya Nakashima (Giappone, 2010)

“Confessions” (“Kokuhaku”) è il primo thriller diretto da Tetsuya Nakashima, regista giapponese in precedenza conosciuto e apprezzato in patria per le sue colorate commedie pop. Questo cambio di rotta si rivela un passo importante per la sua carriera: “Confessions” entra infatti nella cosiddetta short-list come candidato per l’Oscar al miglior film straniero, sfiorando di poco l’ingresso tra i cinque finalisti.
In effetti, con i trenta minuti iniziali dell’opera si sfiora praticamente il capolavoro: è quasi un lungo monologo quello di Yoko Moriguchi (Takako Matsu), una giovane insegnante di scuola media in procinto di ritirarsi dal servizio. Yoko lo annuncia ai suoi vivaci studenti durante una lezione diversa dalle altre, perché proprio attraverso le sue parole la professoressa muove un’accusa pesante nei confronti di due alunni (chiamati per l’occasione studente A e studente B). La donna è convinta che questi ragazzini siano stati gli assassini di sua figlia Manami, trovata morta tempo prima nella piscina dell’istituto. L’insegnante quindi, per vendicare l’omicidio, racconta di aver contaminato il latte offerto a questi due scolari utilizzando il sangue del suo compagno, un uomo infetto dal virus dell’HIV.
È una storia agghiacciante quella messa in scena dal film, una confessione da cui ne scaturiscono altre sempre più controverse e annichilenti, considerando che i due studenti, una volta contagiati, reagiscono in maniera opposta davanti alla loro invisibile malattia. Il primo tenta di riprendere una vita normale, ma viene bullizzato dai suoi compagni (nel frattempo, il nuovo insegnante, si rivela un personaggio banale e privo di carisma). Il secondo invece sceglie la strada dell’isolamento, chiudendosi dentro casa e rifiutando qualsiasi contatto umano (la sua è una discesa nella follia e nella paranoia più ossessiva). Quella di Tetsuya Nakashima diventa dunque una profonda indagine psicologica, nella quale vengono ricostruite tutte le dinamiche precedenti e successive a quel triste episodio: ne esce fuori un thriller piuttosto ambizioso ma altamente personale, dove l’eccessivo autocompiacimento estetico (l’utilizzo esagerato del ralenti) viene fortunatamente compensato da una confezione generale di alto livello, in cui spicca un’ottima (plumbea) fotografia e qualche intermezzo musicale davvero azzeccato (quando parte “Last Flowers” dei Radiohead scendono i brividi lungo la pelle).
La vendetta di “Confessions” fa emergere un sadismo fuori dal comune, una peculiarità probabilmente nascosta nell’animo dei giapponesi ma pronta a schizzare in superficie come un veleno impazzito (non sono poche le pellicole nipponiche che ci hanno permesso di conoscere da vicino questi oscuri e remoti impulsi). Nakashima trasforma quindi la realtà in un inferno, lasciando sfogare la mostruosità dell’essere umano senza perdere di vista la stratificazione dei suoi pensieri e dei suoi comportamenti: un meccanismo quasi perfetto, da sfogliare come se fosse un libro nel quale ogni pagina diventa propedeutica per la comprensione della successiva. La bellezza di “Confessions” bisogna perciò ricercarla nelle sue anomalie, nelle sue particolarità e nella sua fredda e devastante narrazione. “This is my revenge. I have plunged you into the depths of hell”.

(Paolo Chemnitz)

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