Saint Bernard

di Gabriel Bartalos (Stati Uniti/Francia, 2013)

Gabriel Bartalos non è un perfetto sconosciuto. Anche se di film ne ha girati soltanto due (“Scannati Vivi” nel 2004 e questo più recente “Saint Bernard”), come truccatore ed effettista il suo nome è sulla bocca di tanti appassionati da quasi quarant’anni: tra le sue collaborazioni più importanti, è impossibile non citare quella più duratura (con Frank Henenlotter) o quella, cominciata nel 1993, per la serie cinematografica “Leprechaun”.
Rispetto alla sua precedente esperienza, Bartalos qui ha cercato di alzare l’asticella, raccontandoci una storia priva di punti di riferimento ma assolutamente folle e originale. Bernard (Jason Dugre) è diventato un talentuoso direttore d’orchestra grazie agli insegnamenti dello zio: tuttavia un giorno, mentre è sul podio, egli inizia a essere colpito da una serie di allucinazioni, le quali lo trascinano in un trip a dir poco weird e grottesco. Il protagonista prima si imbatte nella testa mozzata di un cane San Bernardo (che diventa il suo feticcio personale), per poi incontrare alcuni individui davvero bislacchi, da un prete ossessionato dal denaro fino allo stesso zio, questa volta più minaccioso che mai (l’uomo agita un fallo gigante figlio di quelle brillanti intuizioni ereditate proprio dalle opere di Henenlotter, pensiamo ad esempio al delirante “Brain Damage”).
Se “Saint Bernard” fosse uscito durante gli 80s, oggi probabilmente sarebbe ricordato come un cult. Invece quella di Gabriel Bartalos si rivela soltanto una buona pellicola atterrata fuori tempo massimo, al di là di una serie di impennate geniali degne dei nostri vecchi cari b-movie. A tal proposito, tutte le scene in cui Bernard interagisce con una tipa di nome Miss Roadkill sono incredibilmente esilaranti, merito soprattutto degli effetti vintage a cui il regista si è affidato senza batter ciglio (e non poteva essere altrimenti!). Così, tra gambe maciullate, polli che scendono dal cielo col paracadute e altre assurdità che incontriamo lungo il percorso, si arriva a fine visione con la consapevolezza di aver assistito a qualcosa di altamente personale.
Anche se in questo caso lo script (curato dallo stesso Bartalos) conta decisamente poco, allo stesso tempo non è difficile rendersi conto della struttura abbastanza esile che compone “Saint Bernard”, un’opera che vive di parentesi e non di una coesione narrativa capace di coinvolgerci emotivamente. Una peculiarità sulla quale è possibile chiudere un occhio, alla luce di una follia visionaria a tratti veramente travolgente. Dimenticatevi dunque il rabbioso San Bernardo visto in “Cujo” (1983), perché stavolta il cinema horror si diverte a giocare con il fantasy e con il grottesco, infischiandosene della logica e delle regole. 

(Paolo Chemnitz)

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