
di Derek Jarman (Gran Bretagna/Giappone, 1993)
“Che bisogno c’è di tante notizie dall’estero, quando tutto ciò che riguarda la vita e la morte viene trattato e agisce dentro di me?”. Questa è una delle prime considerazioni presenti in “Blue”, l’ultimo film scritto e diretto da Derek Jarman: egli all’epoca, già gravemente ammalato per una serie di complicazioni dovute al virus dell’HIV, si apprestava a lasciare il mondo consapevole del suo destino (Jarman muore all’inizio del 1994, pochi giorni dopo il suo cinquantaduesimo compleanno).
La pellicola consiste in un unico fotogramma di colore blu (blu oltremare, per l’esattezza) dal quale emerge la voce del regista e di altre figure narranti che si alternano in questa emozionante confessione (tra loro, troviamo anche Tilda Swinton). Attraverso queste parole, Derek Jarman ci racconta una serie di passaggi chiave della sua esistenza e della sua filosofia artistica, mettendo sempre al centro del discorso una malattia ormai completamente debilitante (a causa di un’infezione, Jarman era diventato quasi cieco e riusciva a distinguere soltanto alcune tonalità di blu).
Tale colore può avere diversi significati: è sinonimo di profondità, di sensibilità e in alcuni casi anche di armonia e di tranquillità, ma nei paesi anglofoni il blu è spesso associato alla malinconia, alla tristezza e alla depressione. Tutte queste sensazioni si mescolano di continuo durante l’immersione a cui siamo sottoposti, perché mai come questa volta è possibile parlare di pura esperienza sensoriale. In effetti, “Blue” lo possiamo anche vedere a occhi chiusi, lasciando correre i pensieri del regista e quei magnifici tappeti sonori scritti appositamente per l’occasione (gli artisti coinvolti sono di altissimo livello, da Simon Fisher Turner a Brian Eno, passando per i Coil, il cui splendido 7” “Themes For Derek Jarman’s Blue” è ormai diventato un raro oggetto per collezionisti).
“Si può conoscere il mondo intero senza spostarsi di casa, si può scorgere la via del cielo senza guardare fuori dalla finestra. Spingersi sempre più lontano. E sapere sempre meno”. Davanti agli ultimi mesi di sofferenza, è ormai lo spirito a parlare: Derek Jarman ci sta offrendo la sua anima, un dono incommensurabile velato di amarezza e di rassegnazione (“la nostra vita passerà come le tracce di una nuvola e si dileguerà come foschia braccata dai raggi del sole, perché il nostro tempo è il passaggio di un’ombra e le nostre vite corrono come scintille tra le stoppie”). Una fragilità degna di un vero essere umano chiamato a recitare le sue ultime parole in attesa della fine, ma ancora capace di sognare, di immaginare, di rendersi poeta in un mondo destinato a crollare nel silenzio e nell’indifferenza. Quando poi partono le note del piano di Erik Satie, c’è da commuoversi. Si tratta, guarda caso, delle stesse note utilizzate trent’anni prima da Louis Malle nel suo capolavoro esistenzialista “Le Feu Follet” (1963).
“Blue” è un dramma autobiografico che allo stesso tempo illumina, squarcia, annichilisce e rasserena, un mare in tempesta che alla fine della tormenta ci abbandona dolcemente in un posto isolato, lontano da tutti, dove nessuno è più in grado di raggiungerci.

(Paolo Chemnitz)
