
di Nicolas Winding Refn (Danimarca/Gran Bretagna, 2009)
A un anno di distanza dalla consacrazione raggiunta con l’istrionico e chiassoso biopic “Bronson” (2008), Nicolas Winding Refn evita di battere su quel ferro ancora caldo, cambiando completamente le carte in tavola. Nasce così “Valhalla Rising”, un esperimento mistico ed ermetico incapace di accontentare un pubblico mainstream all’epoca ingannato da chi spacciava questa pellicola come una sorta di nuovo “Braveheart” (1995).
La buona notizia è il ritorno di Mads Mikkelsen alla corte di Refn: egli interpreta One Eye (più didascalico di così!), un guerriero muto tenuto prigioniero da un gruppo di vichinghi ancora non convertiti al cristianesimo. Una volta libero dalle catene, il protagonista si incammina per le brughiere insieme al ragazzino che gli faceva (suo malgrado) da carceriere: da qui un fatale incontro, questa volta con dei vichinghi cristiani intenzionati a recarsi in terra santa per combattere gli infedeli. Il film procede capitolo dopo capitolo (in tutto sono sei), con quello dedicato al viaggio sulla nave che si distingue per pathos e atmosfere (la nebbia è onnipresente), una traversata che tuttavia conduce questi individui in un luogo ostile e impervio abitato da tribù primitive. Se da un lato i conquistatori decidono immediatamente di assoggettare queste popolazioni indigene, One Eye si disinteressa alla loro sorte, lasciandosi guidare soltanto dalle sue visioni profetiche.

Nulla da obiettare sulla magnifica confezione (la fotografia è maestosa, la regia impeccabile), al contrario di una sostanza narrativa praticamente impalpabile: Nicolas Winding Refn negli anni ci ha abituato anche a questo, non ci sono dubbi, però nel caso di “Valhalla Rising” la tendenza è quella di portare all’esasperazione ogni singola inquadratura, lasciando allo spettatore l’ingrato compito di elaborare gli aspetti concettuali della pellicola. Sotto questo punto di vista, ci sarebbero molte cose da dire, non a caso One Eye si rispecchia completamente nella figura di Odino, il più sapiente degli dèi nella mitologia norrena (la mancanza di un occhio è sinonimo di conoscenza).
Il materiale su cui discutere non si esaurisce di certo qui, perché da quel sacrificio conclusivo (una redenzione di chiara matrice cristologica) si può anche estrapolare un discorso più trasversale di condanna universale per la religione (se inizialmente l’opera ci sbatte in faccia una serie di scene di violenza estrema, nella seconda parte del film l’ipocrisia cristiana si affianca alla brutalità di un paganesimo dai contorni alquanto primordiali). Tuttavia Refn non giudica nessuno, lasciando che la speranza si manifesti soltanto nell’unico essere innocente che incontriamo durante la visione, ovvero il ragazzino che accompagna One Eye.
“Valhalla Rising” non può essere considerato tra i lavori più emblematici del regista danese, ma allo stesso tempo è proprio qui che si consolida il Refn puramente autore: parliamo di quel regista (per alcuni troppo autoreferenziale) capace di saper maneggiare con assoluta maestria la materia cinematografica più ardua e ambiziosa. L’inferno di “Valhalla Rising” testimonia quanto detto, squarciando lo schermo con un silenzio impenetrabile destinato a un pubblico di pochi intimi.

(Paolo Chemnitz)
