
di Hisayasu Satô (Giappone, 1986)
Verso la metà degli anni ottanta, il cinema underground giapponese aggiorna automaticamente le sue tematiche, puntando i propri riflettori sul lato oscuro di una società sempre più tecnologica e protesa verso il futuro. Il benessere e lo sviluppo da un lato, la nevrosi e la frustrazione nel rovescio della medaglia, con la famiglia (disfunzionale) spesso al centro della questione. Ecco che così, due anni dopo il folle e imprescindibile “The Crazy Family” (1984) di Sogo Ishii, è il turno di uno dei primissimi lavori diretti da Hisayasu Satô, un regista poi rimasto sempre ancorato nel sottobosco più perverso e malsano del cinema nipponico.
“Gimme Shelter” ci parla di un nucleo familiare in apparenza normale, quello medio-borghese in grande ascesa durante quel decennio: tuttavia, già dalle immagini iniziali, non è difficile intuire il malessere presente dentro quella casa, anche perché la festa di compleanno della figlia (Kiriko) si rivela un teatrino fasullo dove ogni maschera finge di partecipare: questa ragazzina lo sa, non a caso respinge emotivamente i finti sorrisi di mamma e papà. Inoltre, la teenager incarna l’unico elemento della famiglia ancora non corrotto (Kiriko è vergine), nonostante le tentazioni lesbo che presto la coinvolgono con una sua professoressa. E gli altri? La situazione è alquanto controversa, tra un padre (omosessuale) che spinge i giovani a prostituirsi, una madre perversa capace di eccitarsi guardando i corsi di aerobica e un figlio (Eiji) alienato come pochi e psicologicamente problematico.
Il budget è ridicolo (il film per giunta si trova soltanto in una qualità mediocre) ma ad Hisayasu Satô bastano le intenzioni: ne esce fuori un prodotto breve ma diretto e quadrato, in cui la morte diventa una sorta di obiettivo finale per tutti i membri della famiglia. Il regista giapponese chiude perciò qualunque porta alla speranza, barricandosi nel suo proverbiale nichilismo nel quale scivola inesorabilmente ogni individuo.
“Gimme Shelter” paga però a caro prezzo l’insistente presenza di scene erotiche relativamente funzionali alla causa, una prerogativa che ritroviamo spesso nella prima fase della carriera di Satô, quando il regista non aveva ancora sviluppato la giusta personalità per imporre al cento per cento la sua idea di cinema. Un’idea ossessiva e coerente che bisogna percorrere al di là dei suoi limiti, perché solo all’interno di questa sconfinata filmografia è possibile rintracciare i semi del caos di una società nipponica votata all’autodistruzione.

(Paolo Chemnitz)
