Le Ombre Degli Avi Dimenticati

di Sergei Parajanov (Unione Sovietica, 1965)

La carriera di questo regista nato nel 1924 da genitori armeni è stata a dir poco turbolenta: prima bersagliato dalla censura (le autorità sovietiche criticarono aspramente il suo operato) e poi finito in carcere (a cui seguirono molti anni di inattività), Sergei Parajanov ha osato sfidare in maniera coerente e personale il sistema, remando contro quelle istituzioni da cui aveva preso le distanze fin da giovanissimo (egli definì spazzatura alcuni lavori di propaganda nei quali fu inizialmente coinvolto). Oggi ci soffermiamo non sul suo immortale “Il Colore Del Melograno” (1969), bensì sul precedente “Le Ombre Degli Avi Dimenticati” (1965), una pellicola anch’essa unica nel suo genere, un film dove il (melo)dramma riesce a fondersi con il folklore locale, filtrandolo attraverso un approccio visionario, surrealista, sperimentale e avanguardistico.
Gli eventi si svolgono tra le lande innevate dei Carpazi, nel cuore della comunità Hutsuli, una minoranza etnica stanziata in territorio ucraino. Qui un uomo di nome Ivan si innamora di Marichka, nonostante i forti dissapori tra le due famiglie: tuttavia, dopo la tragica morte della ragazza, il protagonista prende come sposa Palagna (pur restando mentalmente legato alla sua fiamma spentasi prematuramente). Un comportamento che costringe quest’ultima a rivolgersi a uno stregone.
Se in principio “Le Ombre Degli Avi Dimenticati” può sembrare una sorta di manifesto etno-antropologico sugli usi e i costumi di questa gente (i balli, le maschere, la musica onnipresente), col trascorrere dei minuti il film vira sugli aspetti mistico-magici degli Hutsuli, mettendo in luce un forte simbolismo nel quale convivono a braccetto elementi sempre sospesi tra sacro e profano. Parajanov riesce dunque a deformare la realtà attraverso uno sguardo onirico-fiabesco in cui assistiamo a una totale esplosione dei cromatismi: tali soluzioni visive lasciano a bocca aperta anche grazie a una serie di inquadrature vertiginose, nelle quali il regista offre allo spettatore un dinamismo per l’epoca fuori dal comune.
La pellicola, suddivisa in vari capitoli, tende a soffocare i flebili intenti narrativi per fare spazio all’impeto delle immagini e dei suoni: prendiamo come esempio la fase dell’elaborazione del lutto da parte di Ivan, una parentesi in bianco e nero studiata appositamente per catturare gli occhi dello spettatore, al di là degli eventi appena accaduti. In tal modo, il regista attinge solo concettualmente dal libro originario (scritto da Mikhaylo Kotsyubinsky nel 1912), spostando su un piano fortemente simbolico-visivo ogni percorso attinente alla storia. Il realismo sociale incoraggiato dalle autorità sovietiche viene quindi sovrastato da un approccio diametralmente opposto, per un cinema fuori dal tempo che ancora oggi percepiamo come un puro incanto poetico.

(Paolo Chemnitz)

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