
di Jens Dahl (Danimarca, 2020)
Se una volta per ringiovanire bastava affidarsi ai ravioli speciali della zia Mei (“Dumplings” è un cult movie imperdibile), oggi le tecniche di biohacking lasciano spazio a qualcosa di realmente indefinito, dove non è facile distinguere il confine tra progresso scientifico e auto-sperimentazione. “Breeder” parte proprio da questa ambiguità, spingendo tali contenuti verso i più impensabili territori legati al cinema estremo.
Il regista Jens Dahl, già sceneggiatore del primo “Pusher” (1996) di Nicolas Winding Refn, ha presentato così la sua opera al Torino Film Festival: “se viviamo più a lungo, ci attaccheremo anche più a lungo al nostro potere e al nostro privilegio, non lasciando alcuno spazio alle generazioni successive”. In effetti, se l’essere umano è riuscito a comprare qualunque cosa tranne il tempo, oggi il suo obiettivo dichiarato è proprio quello di raggiungere l’immortalità, in modo tale da poter accumulare ogni forma di ricchezza fino all’esasperazione, contro ogni legge della natura. In “Breeder” questo discorso diventa ancora più malsano, soprattutto quando la protagonista Mia (Sara Hjort Ditlevsen) scopre che il marito Thomas lavora per un’azienda che propone un trattamento rivoluzionario in grado di invertire l’invecchiamento. A capo di questa misteriosa società, c’è la dottoressa Isabel Ruben, una spietata aguzzina che sperimenta tali pratiche utilizzando alcune ragazze prima rapite e poi segregate all’interno di un vero e proprio carcere sotterraneo (le giovani cavie vengono marchiate con il fuoco in segno di benvenuto).
“Breeder” è un prodotto freddo e per certi versi minimale, non a caso è facile intuire la sua provenienza tipicamente nordica: tuttavia, invece di spingere sul versante disturbing drama, Jens Dahl sceglie la strada dell’horror estremo, trasformando queste vicende in una sorta di women in prison di nuova generazione, dove ogni infamia è permessa (dalla cieca violenza alla vendetta più crudele).
La durata spropositata del film (si sfiorano i centodieci minuti), accompagnata da una palese mancanza di originalità (gli argomenti trattati da soli non bastano), non ci permette di entrare a fondo nelle dinamiche dell’opera, la cui narrazione spesso scivola via in maniera poco fluida e coinvolgente: di contro, c’è comunque da sottolineare un’interessante studio psicologico attorno alla figura di Mia, una donna sessualmente insoddisfatta dal marito e dunque appagata soltanto da un certo tipo di onanismo masochistico. In definitiva, “Breeder” si rivela una pellicola che tenta di rinnovare le tematiche ormai stantie appartenenti al filone horror di inizio secolo (pensiamo alla sfruttatissima corrente torture porn), contaminando tali sensazioni con alcune derive più o meno intriganti di estrazione (fanta)scientifica. Il risultato finale non raggiunge la completa sufficienza, pur lasciando ben impresse nei nostri occhi una serie di immagini alquanto ripugnanti.

(Paolo Chemnitz)
