
di Kiyoshi Kurosawa (Giappone, 2008)
Esistono tanti modi per mettere in scena la dissoluzione di una famiglia, lo abbiamo visto di recente anche in terra nipponica: pensiamo al perverso “Visitor Q” (2001) di Takashi Miike oppure al viscerale “Cold Fish” (2010) di Sion Sono, due pellicole dove la disintegrazione familiare passa inesorabilmente dal sovvertimento delle gerarchie (nel primo caso) o dalla manipolazione più subdola e cinica (l’esempio di “Cold Fish”). Se in entrambe le situazioni è l’intervento di un elemento esterno alla famiglia a rompere i fragili equilibri presenti nel nucleo, con “Tokyo Sonata” entra in gioco il sistema, la società, il mondo del lavoro. Una prospettiva non meno spaventosa rispetto a quelle raccontate dai succitati registi.
La storia ruota attorno ai componenti di una famiglia del ceto medio giapponese: Ryûhei Sasaki (Teruyuki Kagawa) è un uomo d’affari in giacca e cravatta, sua moglie Megumi (Kyôko Koizumi) è invece una donna devota all’educazione dei figli e alla cura della casa. Quando Ryûhei viene improvvisamente licenziato (il suo datore di lavoro preferisce assumere degli impiegati cinesi a basso costo), egli continua a far finta di nulla, tenendo tutti all’oscuro dell’accaduto. Nel frattempo, il figlio minore Kenji si appassiona allo studio del pianoforte, ma anche in questo caso c’è qualcuno che nasconde qualcosa a un familiare (il padre è decisamente contrario ad assecondare la scelta del ragazzino). Così facendo, mentre osserviamo Ryûhei barcamenarsi quotidianamente (in gran segreto) alla ricerca di una nuova occupazione, il circolo di bugie prosegue senza tregua la sua marcia, fino all’inevitabile resa dei conti.
Kiyoshi Kurosawa non è solo horror, questo lo sappiamo. Tuttavia gli applausi diventano scroscianti anche quando il regista giapponese imbocca la strada del dramma, rinunciando alla sua proverbiale comfort zone. Il premio della giuria a Cannes (Un Certain Regard) testimonia quanto detto, non a caso nel corso degli anni “Tokyo Sonata” è diventato un vero classico del suo repertorio. Un cinema freddo, sobrio e minimale, eppure particolarmente vivo e doloroso, perché il declino della società contemporanea finisce per scagliarsi direttamente sulle spalle del singolo cittadino, di colui ormai viziato e coccolato dalla tranquillità del (borghese) focolare domestico. Ma la decadenza del mondo esterno è solo un pretesto per fare luce sulla banalità dei rapporti familiari, su una persistente mancanza di comunicazione tra gli esseri umani e sull’anonimato di case e di luoghi tutti uguali (le riprese in campo lungo o le inquadrature fisse avvalorano queste sensazioni). In poche parole, “Tokyo Sonata” è una sfilata di maschere incapaci di accettare la tragedia della realtà.
Le improvvise accelerazioni presenti nell’ultima mezzora, oltre a un finale dal sapore agrodolce, permettono alla pellicola di non ripetersi all’infinito senza arrivare al punto della questione: tali sequenze più movimentate diventano per giunta l’unica via di uscita per ridiscutere la propria posizione in famiglia, un rimescolamento di carte finalmente capace di scuotere questi personaggi tanto atrofizzati quanto peccaminosi. È un dramma esistenziale “Tokyo Sonata”, un dramma che si consuma proprio nel corrosivo silenzio della routine di tutti i giorni.

(Paolo Chemnitz)
